di Enrico Deaglio*
Era partito a 56 anni. E’ tornato sei anni, tre mesi e dieci giorni dopo, in una cassa di legno grezzo, più una scatola che una bara. E’ stato sepolto a Preci - minuscolo splendido paese tra l’Umbria e le Marche, a mezza costa dei monti Sibillini, sabato 27 novembre scorso, giornata tersa e gelida; i boschi sono identici ai loro antenati di mille anni fa; e della stessa antichità sono le pietre bianche e rosa messe insieme a costruire strade, ponti, parapetti e la chiesetta, stracolma: il sindaco indossa la fascia tricolore, il vigile porta il gonfalone, il prete assicura che risorgerà nelle pienezza del suo corpo, la famiglia Baldoni ha qui radici lunghissime.
Antonio, il padre di Enzo, assomiglia a un solido, contorto, albero secolare. A 88 anni, abbraccia e accarezza tutti quelli che sono venuti a salutare il suo figliolo tornato a casa.
Enzo Baldoni venne rapito e ucciso in Iraq sei anni fa, ovvero un secolo fa. Nel 2004 Bagdad era la città più conosciuta del pianeta; l’esercito americano aveva invaso il paese perché Saddam Hussein stava per lanciare una bomba atomica sugli Stati Uniti; il 70 per cento degli americani era convinto che Saddam avesse organizzato le atrocità dell’11 settembre. Beh, come sapete, era tutto falso
Enzo Baldoni viveva a Milano, di mestiere pubblicitario, un uomo intelligente e curioso. Animava un popolarissimo blog - la Zonker Zone - , era il traduttore italiano delle storie di Doonesbury e ogni anno, invece di fare le ferie sotto l’ombrellone, andava a curiosare il mondo: il Ciapas, Timor Est, la Colombia. Aveva scritto per il settimanale Diario dei reportages eccezionali, per intuito, vivacità, intelligenza, ritmo e coraggio. Usava il Mac, la Nikon, il web come fossero sue naturali estensioni e nulla poteva impedirgli di andare in Iraq. Un anno dopo la sua uccisione, sua moglie Giusi ricevette il lap top ammaccato che aveva lasciato a Bagdad: migliaia di foto, note, archivi. Guardandoci dentro, si capì quanto Enzo fosse un fuoriclasse del giornalismo.
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Nell’agosto 2004, Enzo Baldoni guidò un convoglio della Croce Rossa italiana da Bagdad a Najaf, dove l’esercito americano assediava il leader sciita Moktada al Sadr. Enzo riuscì ad intervistarlo nella moschea di Alì, bombardata. Al ritorno, a Latifia, una mina fece saltare la sua macchina; uomini di Al Qaeda uccisero subito il suo autista e mostrarono lui in video. Dato che nessuna istituzione dall’Italia fece la voce grossa, lo uccisero. I terroristi hanno cercato per anni di fare affari con il suo cadavere e hanno concluso un’infamante trattativa nell’aprile scorso. Alla famiglia Baldoni (non allo Stato italiano) l’onere di verificare, con un’analisi del Dna, che i resti fossero davvero i suoi. Ecco a che cosa è stato costretto il babbo di Enzo, il padre Priamo della nostra epoca.
Enzo Baldoni è stato un testimone libero e coraggioso della guerra immonda che ha aperto il secolo ventunesimo; lo Stato italiano ha fatto pochissimo per lui, ma ora – e questo è un piccolo appello - il presidente Napolitano potrebbe dargli una medaglia al valor civile, alla memoria. Enzo Baldoni se la merita più di chiunque altro abbia operato in Iraq sotto la bandiera italiana, in quella guerra ormai dimenticata.
* Vanity Fair