di Ahmad Rafat
Di Dopo settimane di attesa per la conclusione del processo farsa al regista Jafar Panahi, Leone d’Oro del 2000 alla Mostra Internazionale di Cinema di Venezia, il Tribunale di Teheran ha emesso la sentenza. Jafar Panahi è stato condannato a 5 anni di reclusione per far parte di un’“organizzazione illegale a scopo di sovvertire lo Stato”, ad un altro anno per “attività di propaganda lesive dell’immagine della Repubblica Islamica”, e a 20 anni di divieto di “dirigere film di ogni tipo, di scrivere sceneggiature, di concedere interviste alla stampa nazionale e internazionale”, nonché il divieto di “recarsi all’estero se non per motivi di salute o pellegrinaggio alla Mecca dietro una cauzione da stabilire”. La sentenza è stata consegnata dal presidente della 26esima sezione del Tribunale Islamico di Teheran alla signora Farideh Gheirat, difensore del regista.
Una sentenza, che lascia senza parole e che non necessita di alcun commento. La carriera cinematografica di Jafar Panahi, stimato regista che con i suoi capolavori cinematografici ha vinto oltre un centinaio di premi, tra questi, oltre al Leone veneziano, anche la Camera d’Oro a Cannes e l’Orso d’Argento, con questa sentenza, se confermata, si è conclusa. Non vedremmo più un’opera toccante come “Il Cerchio”, profonda come “L’oro rosso” o di estrema attualità come “Offside”. Questa sentenza non ha il solo scopo di punire un uomo coraggioso quale è sempre stato Jafar Panahi, il vero obiettivo è di impedire agli altri registi di esprimere liberamente le loro idee e le loro opinioni attraverso il cinema. Una forma di censura preventiva.
Se Panahi, un personaggio internazionalmente noto viene arrestato e condannato, malgrado campagne internazionali e le pressioni di diversi governi europei, immaginiamo cosa potrebbe accadere a giovani registi sconosciuti che cercano di farsi strada nel mondo del cinema iraniano. Il governo di Mahmoud Ahmadinejad teme ogni forma di diffusione di idee e ogni mezzo di comunicazione. Ha iniziato con la chiusura dei giornali e l’arresto dei giornalisti, ha poi continuato bloccando decine di migliaia di siti e mettendo in carcere i blogger, per poi prendersela con il cinema e i registi. Panahi condannato a 6 anni di carcere, il documentarista Mohammad Nourizad, in carcere in fin di vita, per uno sciopero della fame e della sete, altri costretti a riparare all’estero come Bahman Ghobadi o Mohsen Makhmalbaf, mentre chi è rimasto in Iran ha smesso di fare film con tematiche sociali.
Il governo iraniano ha fatto la sua scelta. Ora, tocca a noi e ai nostri governi, scegliere. Possiamo rinunciare ai nostri valori e accontentarci di qualche lavatrice in più da mandare in Iran, come un sottosegretario agli Esteri ha detto all’avvocato Mohammad Mostasfai durante un recente incontro alla Farnesina. Oppure possiamo alzare la voce e chiedere con fermezza al presidente iraniano la libertà per Jafar Panahi, per Sakineh Mohammadi Ashtiani (donna condannata alla lapidazione per adulterio), per Nasrin Sotudeh (avvocatessa di molti attivisti dei diritti delle donne), per Bahare Hedasyat (la giovane leader del movimento studentesco), per Ahmad Zeidabadi (noto editorialista) e per le centinaia di altri uomini e donne chi ingiustamente si trovano in carcere in Iran e sono puniti per atti che da noi non solo non costituiscono un reato ma che sono considerati un valore.