di Ali Izadi
Non ricordo se è proprio oggi il 31enismo anniversario del suo arresto, ma certo ricorre in uno di questi giorni. Abbas Amir Entezam ha trascorso 19 anni in cella di isolamento, poi è stato brevemente scarcerato, è tornato in prigione ed ha cominciato un curioso vai e vieni tra il carcere, casa sua e i numerosi ospedali dove è stato operato 27 volte, in particolare alle ginocchia, colpite così duramente durante gli interrogatori. I medici hanno fatto quel che potevano ma lui è quasi paralizzato ormai. Abbas è il nostro Mandela, ha ottant’anni e fa politica da quando ne aveva 16. Da ragazzo partecipò a tanti eventi storici, come la manifestazione di 57 anni fa, quella che ebbe luogo in occasione della visita di Nixon: la polizia dello scià uccise tre studenti che manifestavano contro lo scià, tra di loro c’era anche il cognato del grande Ali Shariati.
Poi ci fu la rivoluzione e lui divenne dapprima ambasciatore in Svezia, poi, quando Bazargan divenne il primo ministro provvisorio, fu nominato vice premier e portavoce del governo. E’ proprio per questo che venne arrestato. Lo accusarono di essere una spia degli americani e per questo lo condannarono all’ergastolo. Bazargan fece di tutto per ottenerne la liberazione, ma fu tutto inutile. Successivamente anche per Bazargan i tempi divennero difficili e la svolta estremista lo costrinse alle dimisisoni.
Durante i primi anni di detenzione nessuno ha potuto visitarlo, neanche una volta, ma lui è rimasto lucido, tanto che quando nel 1999, dopo 19 anni di carcere, è stato scarcerato, ha pubblicato un libro nel quale ha affermato che l’occupazione dell’ambasciata americana era un favore agli Stati Uniti, non certo una seconda rivoluzione, come diceva Khoemini. Il libro fu confiscato e lui torno in prigione. D’altronde lui non aveva mai accettato la scarcerazione, voleva essere prosciolto da quell’ accusa ridicola. Pensate, lo accusarono di aver avuto rapporti con l’ambasciatore americano a Teheran, William Sullivan, che per un vice premier non sembra poi un fatto così strano.
Così da dieci anni entra in carcere, ne esce per sottoporsi ad un intervento chirurgico, va a casa per qualche giorno, poi torna in carcere. La cosa strana è che non gli hanno più confiscato il passaporto, quasi volessero che fuggisse all’estero: ma lui non scappa, e così lo riportano dentro.
L’ultima volta che sono stato a cena da lui, durante la breve scarcerazione del 1999, mi ha chiesto: “Izadi, sei stato in prigione?” “Sì – ho risposto- ma solo per una notte.” “Ti manca un’esperienza importante. Il carcere rende l’uomo un uomo giusto.” Dopo un po’ ho notato, vicino la televisore, un biglietto di auguri per l’anno nuovo che gli avevava mandato Ibrahim Yazi, un grande leader politico iraniano, leader del Movimento per la Libertà: “Auguri di buon anno al Mandela dell’Iran”. Solo leggendolo ho capito cosa voleva dire quel discorso sull’importanza dell’esperienza carceraria: tutto sommato era stata quella detenzione ad aver regalato anche a noi un Mandela.