di Leon Dische Becker*
Il 1 ° maggio Diane Massaroli ha chiamato la solita babysitter ad un insolito orario - mezzanotte - chiedendole di venire immediatamente a guardare i suoi bambini. Mai prima di allora le aveva telefonato formulando tali richieste, tardive ed urgenti, ma le circostanze presentatesi erano senza precedenti. Diane aveva appena guardato il presidente Obama tenere una conferenza stampa ad un orario insolitamente tardo ed annunciare un fatto ancor più insolito - inequivocabilmente buone notizie dal fronte orientale degli Stati Uniti. Obama annunciava che le forze speciali statunitensi avevano ucciso Osama Bin Laden, l'uomo responsabile per gli attentati dell’11 settembre, che avevano causato la perdita di tremila vite umane, tra cui quella del marito di Diane, Michael Massaroli, un impiegato della “Cantor Fitzgerald” che il giorno dell’attentato si trovava nella sua postazione di lavoro, al 101esimo piano del WTC1. Appena assicuratasi di aver lasciato i suoi figli in mani sicure, Diane è corsa al Ground Zero, luogo dove fino ad allora si era recata solo per piangere il lutto. In piedi accanto a Ken, amico di famiglia, stringendo una foto di suo marito, il suo era uno dei pochi volti dolenti che poteva essere visto quella notte. Intorno a lei, il pandemonio: all’incirca un migliaio di abitanti di New York festeggiavano frenetici in queste strade come non succedeva dal crollo, dieci anni fa. "Tutto ciò mi rende così felice" ha detto guardando i festeggiamenti che si svolgevano alle mie spalle. Evidentemente la felicità che provava era troppo opprimente per consentirle un sorriso.
Diane ha lasciato gli eccessi ad altri. All’incirca mezz'ora dopo il discorso di Obama, le prime persone a lutto sono arrivate sulla scena, seguite dal primo fotoreporter e dalle équipes dei telegiornali. La notizia dell’estemporanea riunione si è diffusa attraverso le onde radio ed ha presto attirato una marea di festaioli da ogni parte della città - molti dei quali giovani, ubriachi, dall’aspetto e dal comportamento di chi è di ritorno da una vacanza a Cancun.
La loro sfilata vittoriosa occupava interamente l'incrocio tra Fulton e Church Street: una massa pulsante di giovani sbandieratori che gridava "U-S-A!" o intonava l’inno nazionale, scandendo le impossibili note di questo con le dita puntate, celebrandosi l'un l'altro e facendo il tifo per i pochi che hanno osato arrampicarsi sui semafori o per le ragazze che si sono strappate la camicia rivelando orgogliose le tre lettere disegnate sul petto. Jay Odierno, neolaureato, cercava freneticamente la sua ragazza. Gli eventi della notte lo avevano portato a chiederle di sposarlo. Sconosciuti si abbracciavano, coppie si baciavano - era così facile dimenticare ciò che si stava celebrando.
"Guarda. Era un bastardo", ha detto Anthony Marghella, camionista originario del Bronx. "Non meritava un processo." Questo sentimento era condiviso dalla maggior parte dei partecipanti alla manifestazione con cui ho parlato. L'uccisione di Bin Laden appariva loro come un bene inqualificabile, proprio come avevano imparato a classificare come un inqualificabile male il suo operato. I festeggiamenti non sembravano tenere in conto fino a che punto il loro desiderio di vendetta li aveva condotti alla boriosità. Quasi tutti hanno usato la parola "finalmente" per descrivere l'assassinio - come se gli sforzi, le vittime, le libertà civili sacrificate avessero, dopo tutto, ripagato. Un inviato del telegiornale era in piedi illuminato dai riflettori della videocamera, una folla di bandiere dietro di lui. Mentre era in onda, sorrideva trionfante ed annuiva ritmicamente alle grida "U-S-A!". Il buon umore sembrava quasi obbligatorio.
Ma siamo pur sempre a New York, e anche voci critiche potevano essere udite. J.J. Jirad, un pallido regista e neolaureato, teneva in mano un cartello con la scritta “Noi celebriamo la pace - non la morte!” - "Non sono sicuro che questo sentimento sia condiviso dalla folla", ha detto, visibilmente sfiduciato, aggiungendo, "dovrebbe essere così". Mansoor El Aama, uno studente di economia originario degli Emirati Arabi, guardava la folla dall’esterno con un sorriso perplesso ed ironico distacco. "É questa, dunque, la libertà" rifletteva "Non c'è mostra di molta umiltà questa sera."
Una truppa di ufficiali di marina militare fuori servizio, ubriachi, scalava i semafori pendenti sull’incrocio, nel tentativo di legarvi attorno una bandiera americana. Uno di loro penzolava precario sopra la folla, guadagnando frenetici applausi. Qualche ragazzo del posto si è unito a loro, ma la folla gli si è rapidamente rivolta contro. "Solo gli uomini che hanno servito il loro paese possono arrampicarsi sui semafori!" urlava un uomo accanto a me. La polizia ha tentato di arrestare uno degli avventurieri, ma ha rinunciato quando il grido della folla si è momentaneamente rivolto agli agenti ("Lascialo andare! Lasciatelo andare!"). Vicino alle volanti si fumavano spinelli. Tutto ciò che poteva plausibilmente passare per patriottico era, per una notte, consentito a New York City.
Alle 3.30 di mattina la folla si era leggermente dispersa e il messaggio si era ridotto ai suoi elementi essenziali. "Fuck you, Bin Laden!" era ora il loro grido, e la natura provocatoria della loro celebrazione diventava sempre più chiara. "Qualcuno ha qualcosa con cui si possa costruire un’effigie?" urlava un giovane. Molti dei partecipanti, a quest’ora tarda, erano disoccupati. Morte di Osama a parte, soltanto pochi sembravano davvero ottimisti sul futuro del loro Paese. Questo assassinio, presentato dai media come all'altezza dell’ingegno americano,aveva almeno offerto loro una pausa dalla recente ondata di pessimismo, un’opportunità per fingere. I cari, vecchi comforts.
Il primo beneficiario: il venditore ambulante di bandiere. "500 bandiere! Era dai tempi dell’inaugurazione che non vendevo tanto!” ha detto. "Questo è il motivo per cui mi tengo aggiornato con le notizie."
*(Articolo scritto il 2 maggio e tradotto per noi da Silvia Loschiavo)