di Simona Silvestri
Raccontare non è mai tardi. Anche perché i quarant’anni trascorsi dal 12 dicembre 1969 bruciano ancora, e molto. Fortunato Zinni quel giorno era a Piazza Fontana, all’interno della Banca Nazionale dell’agricoltura; attraverso le sue parole la drammatica ricostruzione di una delle pagine più buie della nostra storia recente: “Era un venerdì quel 12 dicembre, e come tutti i venerdì si svolgeva il mercato degli agricoltori. La nostra era l’unica banca a Milano che teneva i suoi sportelli aperti fino alle venti per consentire lo svolgimento delle transazioni. Io ero un impiegato dello sportello 15, ma quel giorno non ero al mio posto: mi trovavo invece in mezzo al salone per assistere le transazioni tra gli agricoltori. Quel venerdì erano le 16:30; avevo appena spezzato un contratto tra due clienti, Carlo Gerri e Girolamo Papetti, quando fui chiamato da un collega dal mezzanino per firmare il comunicato sindacale che informava i lavoratori del rinnovo del contratto dei bancari, un contratto conquistato dopo settantanove ore di sciopero. Allora ero il segretario della commissione interna centrale, per cui chiesi ai miei due amici di attendere e a fatica mi avviai verso la saletta della mezzala. Dopo essere entrato nella stanza feci un gesto per me inusuale; mi appoggiai con le spalle alla vetrata che dava sul salone. Proprio in quel preciso istante ci fu un forte boato e un buio immediato”.
Alle 16:37 una bomba nascosta al centro dell’emiciclo della Banca Nazionale dell’Agricoltura devasta l’edificio, provocando numerosi feriti e 17 morti.
“Dopo lo scoppio della bomba mi ritrovai lungo disteso: non mi ero fatto un graffio perché il vetro era imploso alle mie spalle, mentre gli altri colleghi si erano seriamente feriti al volto. Subito cercammo di guadagnare l’uscita; quando però fui sceso al pianterreno vidi sul bancone dei portieri una batteria di telefoni che suonavano all’impazzata, ne presi uno e capii che era la questura che voleva sapere perché era scattato l’allarme. Mentre parlavo iniziai a rendermi conto che non c’era più il grande lampadario che scendeva dal lucernario. Poi vidi un braccio, e all’improvviso mi resi conto della terribile esperienza che stavo vivendo e riattaccai di colpo. Molti colleghi mi strattonavano dicendo di andar fuori che c’era pericolo, invece io ebbi il coraggio di chiamare mia moglie per avvertirla che stavo bene. Dopo aver attaccato vidi un cliente della banca che si trascinava in una pozza di sangue verso l’uscita che portava all’ingresso e, dopo essermi avvicinato e inginocchiato, mi resi conto che aveva perso una gamba. Lui mi implorava di aiutarlo, io avevo i sudori freddi, tremavo e non ho un ricordo chiaro di quel momento. Tuttavia due mesi dopo questo signore è ritornato in banca con le stampelle e senza una gamba e mi ha portato un pacchetto, al cui interno c’era la mia cintura: a quel punto mi ha raccontato una vicenda di cui ancora oggi escludo di essere stato protagonista. Mi disse che gli avevo legato con la cintura il moncherino per fermare l’emorragia e che voleva ringraziarmi, ma io ancora non sono del tutto convinto di essere stato il protagonista di questa vicenda.
(Il salone, ndr)Era un mattatoio, c’erano morti feriti; inconsciamente cercai i due clienti, prima ne vidi uno ridotto a metà, mentre l’altro era stato dilaniato dalla bomba poco più in là. Il bancone non c’era più, c’erano invece pezzi di legno; vidi una sedia miracolosamente intera vicino al posto dove c’era la bomba. C’era un mio collega, un cassiere, con la pistola di servizio, scarica, che continuava a gridare di non toccare niente perché doveva quadrare. Facemmo fatica ad allontanarlo. Da un lato c’era un sacerdote che benediceva un fagotto a terra e poi i primi soccorsi. Non ricordo grosse grida o urla di spavento.
A un tratto incrociai il commissario Vittoria che conoscevo perché ero quello addetto al controllo degli scioperi, il quale mi prese per un braccio e mi portò fuori per aspettare l’ambulanza. Poco dopo arrivò anche il direttore: fu lui, mentre aspettavamo, a propormi di tornare dentro dopo aver visto che nessuno dei due era ferito.
Andammo allora nel suo ufficio per discutere sull’eventualità di riaprire al più presto la banca. Mi chiese secondo me quando sarebbe stato possibile e io, probabilmente per togliermelo di torno, gli dissi di riaprirla il lunedì successivo: lui, sulle prime perplesso, mi chiese di provare a contattare tutti i colleghi e di convocarli per l’indomani, in modo da parlare dell’apertura.
Il mattino dopo sono arrivati i colleghi, e dopo aver spiegato che la cosa migliore che potevamo fare era difendere il nostro lavoro ritornando a lavorare, decidemmo di riaprire lunedì 15 dicembre. In quell’occasione prendemmo anche la decisione di devolvere le ore straordinarie che avremmo fatto di lì al ritorno alla normalità della banca a favore dei figli minori delle vittime.
Il lunedì eravamo quasi tutti al lavoro, ad eccezione dei feriti. Ricordo che quella mattina nel posto dov’era stata posta la bomba c’erano dei grandi mazzi di fiori circondati da un cordone, al fianco del quale erano posizionati due carabinieri in alta uniforme. Alle nove e mezza uscimmo tutti per partecipare ai funerali, eravamo nel gruppo di familiari delle vittime per cui potemmo entrare in Duomo passando tra due ali di folla.
Se qualcuno mi chiedesse cosa ricordo in modo particolare di questa terribile esperienza, oltre al fotogramma del salone, ricordo quelle trecento mila persone che erano in quella piazza, un muro umano senza un cartello o uno striscione. C’erano operai in tuta, casalinghe , professionisti, impiegati, persone di tutte le categorie che stavano lì con i loro abiti pesanti, zitti, con uno sguardo terribile. Sono quei volti che non riesco a dimenticare, e soprattutto quel silenzio così assordante.
Io credo che quei milanesi che erano lì abbiano impedito la proclamazione dello stato di emergenza e l’obiettivo ricercato da coloro che avevano piazzato la bomba, di spingere lo stato verso una svolta autoritaria”.
Il resto, purtroppo, è triste storia. Dopo le prime accuse nei confronti degli anarchici, e di Valpreda in particolare, di essere gli esecutori della strage, le indagini si indirizzarono verso la pista nera.
Il primo processo per Piazza Fontana si aprì soltanto nel 1972, e secondo le migliori tradizioni italiane, venne più volte rimandato e la sede spostata, da Milano a Roma fino alle lontane Catanzaro e Bari.
Le vittime di Piazza Fontana hanno aspettato invano giustizia per 34 anni. La sentenza definitiva per questa oscura pagina del nostro paese è arrivata soltanto nel 2005, con l’assoluzione completa per Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni (i tre personaggi accusati di aver piazzato la bomba e progettato l’attentato), e la condanna delle parti civili al risarcimento in solido delle spese processuali.
Poche stringate parole chiudono il 3 maggio 2005 la vicenda giudiziaria di Piazza Fontana.
Nessuno è stato. Almeno ufficialmente.
Per info e approfondimenti http://www.piazzafontana.it/