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Articolo 21 - ESTERI
Rivolte arabe: un primo bilancio
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di Riccardo Cristiano*

Rivolte arabe: un primo bilancio Citato tantissime volte per spiegare la violenza del mondo mediorientale,  il Corano forse può servire anche per capire quanto va accadendo in questo 2011. Nella sura “Il Tuono” infatti si legge: “In verità mai Allah muta le condizioni di un popolo finché esso non le muta da sé”. Ma è questa la grande novità del 2011 mediorientale? I popoli hanno deciso di mutare le proprie condizioni?
Se osserviamo in rapida successione gli eventi succedutisi in Tunisia, Egitto, Libia, Bahrain, Yemen, Siria e ora anche in Arabia Saudita, notiamo  che l’esempio del venditore ambulante tunisino Muhammad Bouazizi, che dandosi fuoco per il sopruso patito ha innescato l’incendio tunisino, è stato tutt’altro che isolato. Proprio come in Tunisia anche negli altri paesi arabi insorti la rivolta non è stata guidata da leader forti o popolari, non è stata organizzata da nuovi profeti, ma da semplici cittadini, sconosciuti ai più, come Bouazizi. Chi è Asmaa, la ragazza velata che in Egitto ha chiamato i suoi coetanei a manifestare in piazza at-Tahrir? E quella trentenne che ha invitate le altre saudite a sfidare il divieto a guidare? Come si chiamano i bambini di Daraa, la piccola cittadina del sud della Siria? Loro hanno soltanto scritto sulle mura di scuola lo slogan che da gennaio incendia le capitali arabe, “il popolo vuole la caduta del regime”. Gli aguzzini del sistema imposto circa mezzo secolo fa ai siriani li hanno torturati, e a quel punto anche in Siria il muro della paura è caduto.

Queste mobilitazioni popolari in nome della dignità individuale e collettiva hanno un significato molto semplice: i cittadini di questi paesi, musulmani e cristiani, hanno deciso di porre termine alla guerra fredda mediorientale, nella quale Tehran ha svolto il ruolo che fu di Mosca.
Infatti, qual è la vera novità dei movimenti odierni: il carattere pacifico? La rivendicazione democratica? Non si direbbe.
Moti non violenti e costituzionalisti sono stati di casa in quella parte di mondo già dai tempi delle riforme ottomane, cioè dal 1870. Pacifica e costituzionalista fu la protesta ottomana, pacifiche e costituzionaliste furono le successive proteste siriana, egiziana, libica, irachena, soprattutto le grandi rivolte degli anni Venti, successive al riassetto regionale seguito al disfacimento dell’impero ottomano.
 A quei tempi i  “violenti”, per non dire i “selvaggi”, furono i colonialisti, che stabilirono due tristi primati: nel 1911 con gli italiani in Libia, che per primi bombardarono con l’aviazione la popolazione civile, e nel 1920 con i britannici in Iraq,  primi anche loro, ma ad impiegare  i gas venefici contro la folla.

 Le rivolte invece, allora come oggi, furono non-violente e costituzionaliste. Ma una novità c’è, tanto evidente quanto rilevante. Le rivolte di questo 2011 si differenziano dalle precedenti perché non perseguono la sconfitta o la cacciata dei colonizzatori, del nemico esterno, ma del nemico interno, cioè di regimi arabi, il più delle volte ufficialmente nazionalisti. E’ questo semplicissimo dato che dimostra la sconfitta  dei regimi e della loro ideologia, la contrapposizione tra “bene” e male”. Mettendo in crisi questo assunto le sollevazioni arabe hanno sfidato politicamente non solo i vari  dispotismi ma soprattutto il khomeinismo.
Si è sgretolata così la cortina di ferro mediorientale, nella quale il mondo arabo ha svolto il ruolo che fu  del blocco dei paesi dell’ est europeo. Si tratta di un vero e proprio 1989 mediorientale nel quale la società civile e i giovani si sono autoproclamati una sorta di Solidarnosc araba,  una Solidarnosc diffusa, senza leader e transnazionale. E la globalizzazione non è stata certo un fattore ininfluente.  
Come non sorprendersi infatti rendendosi conto  che in questi mesi,  per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale,  gli arabi ci sono apparsi simili  a noi: usano Facebook,  Internet, gli smartphone, e mettono su youtube i video che i governanti non vogliono siano trasmessi. Scrivono i loro messaggi in arabo ma anche in inglese, leggono i siti informativi nella loro lingua ma anche in inglese, si sentono cittadini del villaggio globale e ne parlano l’idioma, molto spesso meglio di noi italiani (almeno di quelli della mia generazione).

Non è solo tecnologico il ruolo che la globalizzazione ha svolto nell’89 arabo, basti pensare al peso che l’adesione al WTO ha avuto nel modificare le abitudini e le dimensioni della famiglia tradizionale anche in molti paesi del Golfo. Senza dubbio il network globale di idee, informazioni, scambi culturali, immagini e dirette televisive che si è costruito sopra, sotto e attorno ai pietrificati regimi mediorientali dimostra di tutta evidenza  che questo 2011 ha  abbattuto soprattutto un’idea, diffusa tanto in Oriente quanto in Occidente. Un’idea che il presidente siriano Bashar al-Assad e quello francese, Nicolas Sarkozy, avevano espresso compiutamente.
Quando venne eletto Presidente della Repubblica Araba di Siria, probabilmente già perfettamente consapevole di essere stato chiamato a guidare un regime non riformabile, Bashar al-Assad nel suo discorso di insediamento, nel giugno del 2000 disse: “ Noi non possiamo applicare a noi stessi la democrazia di altri. Le democrazie occidentali, per esempio, sono il prodotto di una lunga storia che ha generato usi e costumi, quelli che caratterizzano l’attuale cultura delle società occidentali. Noi dobbiamo avere la nostra peculiare esperienza democratica, che sgorga dalla nostra storia, cultura e civiltà e che risponde ai bisogni delle nostre società e della nostra realtà.”  Un concetto che venne ripreso dal presidente francese Nicolas Sarkozy quando si recò in visita di Stato a Damasco, nel settembre del 2008. Tra i pochi ad obiettare, allora, ci fu il noto dissidente siriano Michel Kilo, che ricordò all’ambasciatore francese che proprio il suo paese, qualche tempo addietro, aveva prodotto e diffuso nel mondo l’idea dei diritti umani universali. Assad e Sarkozy, invece, si appellavano a quella “peculiarità” dei “diritti umani islamici”, o “asiatici”, per dirla in una lingua più diffusa, il cinese. Ora accade che le piazze arabe abbiano dato ragione a Kilo e torto ad Assad e Sarkozy.
Per quanto molti “esperti”, giustamente, abbiano richiamato la nostra attenzione sul fatto che gli eventi di cui stiamo parlando hanno origine in Paesi diversi, in società più o meno complesse e per fatti chiaramente riconducibili a specifici non assimilabili, è chiaro anche che qualcosa di comune c’è stato. Le voci libere, le voci democratiche, i giornalisti d’assalto, hanno creato negli ultimi anni quello spazio comune arabo di cui ha parlato con acume uno dei principali intellettuali arabi, Rashid  Khalidi, e che ha trovato nel termine “dignità” la sua più forte espressione ed “incarnazione”. Perché il tratto comune dei regimi caduti o in via di crollo era proprio questo, il negare la dignità umana dei propri “sudditi”, come il solo Gheddafi ha avuto “l’onestà” di affermare. Oltre che tirannici quei regimi erano anche la “cupola” di veri e propri “stati mafia” all’interno dei quali erano nate col tempo società nuove, incompatibili. Dunque più che rivolte del pane quelle a cui abbiamo assistito sono vere e proprie rivolte “per la dignità umana”. La otterranno?

Alcuni, con secca efficacia, hanno risposto così: “ senza il pane non c’è dignità”. E il punto di questo discorso è chiaro. Partite dalle grandi aree urbane, dai giovani e dai ceti medi, queste rivolte contro gli “stati mafia” degli Assad o dei Mubarak o dei Ben Ali o degli Ali Saleh  per affermarsi  devono necessariamente ottenere miglioramenti economici. Tra i risultati indiscutibili del regime di Hosni Mubarak, ad esempio, c’è la crescita esponenziale del numero di egiziani che vivono con meno di 2 dollari al giorno, cioè sotto la soglia di povertà estrema. Possono essere queste le condizioni per costruire la democrazia egiziana?
Il dato economico sarà decisivo, e il crollo delle rimesse dei lavoratori egiziani espatriati (e ora rientrati) o del turismo certo non aiuterà. In un’area  incredibilmente sprovvista di infrastrutture transnazionali (un lascito dell’epoca coloniale) il cammino sarà lungo e difficilissimo. I segnali non incoraggianti già sono emersi in Egitto, dove la diffusa preoccupazione per la stabilità ha spinto molti elettori ad accettare elezioni che appaiono frettolose e regolate in modo da avvantaggiare chi è già organizzato. Ma in Tunisia, dove i tunisini hanno fatto tre rivoluzioni (una contro Ben Ali e due contro governi troppo compromessi con il tiranno rimosso), molti oggi temono la lontananza del voto, previsto per fine luglio, nell’attesa del quale le forze ostili al cambiamento ricorrono alla violenza per impaurire l’opinione pubblica e quella internazionale. Sono i gruppi salafiti, terroristi fomentati dall’Arabia Saudita e da  Ben Ali, cioè da coloro che per fermare la democrazia e le riforme cercano da impaurire il mondo con lo spettro della “violenza islamista”, che sgozza missionari in Tunisia e aggredisce i copti in Egitto.

In entrambi questi paesi il successo dei partiti di ispirazione islamica ci sarà, ma non andrà considerato come un successo dei salafiti, non necessariamente.   Molto dipenderà da quale leadership prevarrà in ciascuno partito islamico.  Quale volto avrà la Nahda tunisina del rimpatriato Ghannuchi? Quello che plaude all’attuale avanzatissimo diritto di famiglia o quello opposto? La stessa domanda vale ovviamente per l’Egitto, dove nella Fratellanza Musulmana c’è un chiaro confronto-scontro tra vecchi e giovani, e non solo. E dopo la barbarie perpetrata nell’indifferenza della comunità internazionale ai danni del suo popolo, che volto avrà la perseguitata fratellanza musulmana nell’ormai inevitabile dopo Bashar? Probabilmente ( oggi però è ancora difficile darlo per certo) l’intervento turco eviterà scenari ancor più apocalittici; dipende da Ankara il futuro corso siriano?
Ma è un errore pensare che la partita si giochi in così poco tempo, che tutto si deciderà entro quest’anno. Certo, sarebbe preferibile partire con il piede giusto, ma la partita innescata dalle rivolte arabe produrrà i suoi veri risultati politici in tempi medi, quindi c’è un importante lavoro politico-culturale da portare avanti. E qui il ruolo delle minoranze cristiane diventa essenziale.
Il mondo arabo in questo 2011 vive un momento storico decisivo, simile a quello che si determinò con il disfacimento dell’impero Ottomano. “Gli stati mafia” portano giù, in fondo al mare della storia, anche gli attuali “stati nazione”, nei quali non esistendo diritti di cittadinanza la crisi significa anche crisi dello stato. Sembrano riprendere significato e senso le appartenenze etniche, tribali, visto che quelle statuali non ne hanno più da cinquanta o sessant’anni.  Libia e Sudan sembrano entità già superate, l’Iraq, la Siria e il Bahrain lo potrebbero essere presto. E lo Yemen?

Non sta certo a noi, occidentali, difendere o attaccare gli attuali confini, ma alcuni timori “complottisti” sono comprensibili: qualcuno nel vecchio Occidente ha pensato un riassetto mediorientale con una miriade di statarelli  tanto omogenei su base confessionale quanto ininfluenti sul piano politico e commerciale (mille produttori di petrolio non preoccupano quanto preoccuperebbe un produttore solo.) Nella galassia fondamentalista altri invece sognano l’esatto opposto, un non più irrealistico super-paese, che nasca nel rispetto dei legami famigliari (oggi transnazionali). Uno stato che loro presentano, o pensano, come  la vecchia comunità dei fedeli.
Ma quando i fatti mettono in discussione una realtà occorrono fatti, idee, per difenderla. E i cristiani oggi possono difendere  il senso degli attuali stati-nazione. Ma non rimanendo aggrappati ai vecchi tiranni, nel timore che il futuro sia peggiore del presente. Quei patriarchi che difendono l’ordine dato nel timore “dei fondamentalisti” pensano al “timore di sparire” ma in realtà vivono il “ timore di esistere”, per dirla con il teologo Jean Corbon. Le loro comunità non possono che “vivere pienamente il dramma delle loro società”. E il principale contributo che possono dare alla costruzione di un futuro diverso, e migliore, non è certo quello di offrirsi come difensori di indifendibili despoti, ma come teorici delle nuove fedeltà che dovrebbero essere alla base degli stati nazione messi in discussione dalle perversione del Novecento: non esiste un futuro per i cristiani del Medio Oriente senza ciò che serve per rianimare gli stati-nazione, e cioè i diritti di cittadinanza, la partecipazione di ogni individuo e di ogni comunità alla definizione e ricostruzione della casa comune. Da dove vengono i giovani che oggi chiedono “dignità”? Dal buio senza speranze delle cellule di Al Qaeda? O, seguendo il ragionamento del gesuita Paolo Dall’Oglio,  dalle speranze tradite dei loro nonni comunisti  e dei loro genitori  convinti che l’“Islam è soluzione”? E’ con questi “nipoti” e “figli” che i cristiani del Medio Oriente hanno un futuro in “comune”, non con i regimi.

Infatti il vero problema su cui si è schiantato il vecchio paradigma politico mediorientale è questo; le “fedeltà illegittime” che hanno costituito  l’anima degli “stati-mafia” non bastano più. Oggi occorrono nuove fedeltà per salvare appartenenze e identità che altrimenti non avrebbero più senso. Queste fedeltà si chiamano “diritti di cittadinanza”.
I cristiani del Medio Oriente se resteranno nascosti dietro i satrapi mediorientali nel timore di un futuro peggiore estingueranno la loro presenza plurimillenaria in Medio Oriente, suicidandosi. Se sceglieranno invece di guidare culturalmente questa sfida appena iniziata potrebbero risultare decisivi a salvare se stessi e i propri paesi.    
Non è certo un caso se uno dei più apprezzati intellettuali arabi cristiani, Amin Maalouf, già anni addietro ha scritto: “O impariamo a costruire  una civiltà comune alla quale ciascuno di noi possa appartenere volontariamente, rafforzando questo legame con valori consolidati  dall’esperienza umana arricchita dalla nostra diversità culturale…  o affonderemo insieme in una comune barbarie senza fondo. Abbiamo bisogno di una cultura del “vivere insieme”, cioè di uno “Stato della convivenza.”  E questo stato non può che essere civile, basato su una chiara distinzione tra stato e religione.
Un altro grande intellettuale arabo cristiano, Samir Frangieh , è andato oltre, scrivendo un appello sul quotidiano libanese an-Nahar. Per Frangieh in questo nuovo  stato arabo  “ si riconoscono diritti ai soli cittadini, senza discriminazioni, ma allo stesso tempo si forniscono garanzie per le comunità. Nascerà di qui un nuovo arabismo, l’arabismo del vivere insieme, che non sarà altro che il figlio dell’arabismo originario dell’Andalusia, dove hanno vissuto e con-vissuto per  secoli musulmani, cristiani ed ebrei in armonia, umana, culturale e religiosa.
Questo arabismo culturale  dovrebbe risorgere sulle rovine dell’ arabismo dell’odio e della vendetta, che ha guidato il mondo arabo sin dal momento della creazione dello stato di Israele, rinchiudendoci e isolandoci in noi stessi.”
La suggestione è fortissima: l“arabismo del vivere insieme” dovrebbe consentire di istituire un sistema regionale,  partecipando effettivamente alla definizione del nuovo ordine mondiale, dovrebbe offrire  un nuovo modello per il Medio Oriente, “L’Oriente del vivere insieme”, basato sull’iniziativa di pace araba che ha promosso uno Stato palestinese indipendente.
In questo modo, conclude il suo ragionamento “visionario” Frangieh, il mondo arabo “chiederebbe alla comunità internazionale di “liberare” gli israeliani dalla “prigione” nella quale si sono racchiusi a causa del loro radicalismo religioso e etnico, un radicalismo che fa temere una nuova teocrazia.”

*da www.ilmondodiannibale.it

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