Articolo 21 - ESTERI
Il Minnesota e la nuova destra anarchica americana
di Massimo Faggioli
Delle due cupole rivali di St. Paul, capitale del Minnesota, solo quella grigia del duomo (vaga imitazione della cupola di San Pietro a Roma) è aperta ai visitatori. Chi passa davanti a quella bianca del Campidoglio, sede del parlamento dello stato, vede l’area transennata: segno che tutto il governo dello stato è chiuso, in shutdown.
Il governatore democratico Mark Dayton, eletto a fine 2010, e la maggioranza repubblicana eletta insieme a lui non si sono accordati sul budget entro la scadenza del 30 giugno. La maggioranza repubblicana aveva approvato un budget di 34 miliardi di dollari senza alcun incremento di imposte, ma Dayton aveva posto il veto. Così, dal primo giorno di luglio 2011 il governo e tutte le attività e i servizi “pubblici” dello stato sono chiusi fino a nuovo ordine, ovvero fino a quando le due parti non riusciranno a trovare un accordo sul nuovo budget dello stato.
Finora i colloqui non hanno portato da nessuna parte: non ha sortito effetti neppure il tentativo di mediazione del più celebre enfant du pays, Walter Mondale, vicepresidente di Carter, candidato alla presidenza nel 1984 e idolo della politica democrat locale.
Le conseguenze dello shutdown sono legalmente chiare – ogni attività finanziata con denaro dello stato si blocca – ma in pratica la situazione è molto meno chiara. È chiaro ai dipendenti dello stato (circa 22.000) il fatto che dall’inizio di luglio sono tecnicamente senza lavoro e che quindi inizieranno a ricevere l’assegno di disoccupazione. Meno chiare sono altre situazioni (pratiche per patenti, adozioni, contratti di appalto, etc.), per cui le corti legali funzionano a ciclo continuo (e anche per telefono) in modo da poter decidere caso per caso quali attività lo stato del Minnesota deve continuare a finanziare perché “essenziali” e quali invece non sono essenziali.
Non sono chiari, ad esempio, gli effetti che lo shutdown avrà sulle borse di studio e i prestiti per studenti meritevoli. Se le università private saranno lambite solo marginalmente da questa crisi, diversa è la situazione per quelle statali. Non si sa per quante settimane potranno continuare a funzionare i trasporti pubblici, che ora funzionano con fondi di riserva. Sembra molto chiaro, invece, che lo shutdown contribuirà a deprimere l’economia del Minnesota, che dal 2008 ad oggi era stata meno toccata di altre aree degli Stati Uniti dalla crisi dei mutui e dalla disoccupazione.
Nei giorni immediatamente precedenti alla scadenza ultima per evitare la crisi, alla vigilia del ponte per la festa del 4 luglio, i minnesotani paventavano lo shutdown per la chiusura dei parchi nazionali nei quali speravano di campeggiare e dei musei storici che speravano di visitare. Ma a due settimane dall’inizio dello shutdown la situazione è ancora bloccata, con nessun segnale di avvicinamento tra le due parti: lo shutdown del Minnesota è diventato il più lungo nella storia degli Stati Uniti.
Nei giorni scorsi il governatore Dayton aveva prima proposto di aumentare temporaneamente le tasse sul reddito dei minnesotani che guadagnano più di un milione di dollari all’anno, poi aveva avanzato l’idea di alzare le tasse sulla vendita delle sigarette. I repubblicani hanno rigettato entrambe le proposte, all’insegna del rifiuto di qualsiasi aumento del gettito fiscale, sotto qualsiasi forma: la sola soluzione sembra essere, per i repubblicani, il taglio dei servizi in uno stato che negli ultimi anni, sotto il governatore repubblicano Pawlenty, aveva già tagliato molto.
Il governatore Dayton ora ha preso le strade del Minnesota per tentare di spiegare ai cittadini quello che sta succedendo, e per convincerli che senza un aumento delle tasse sui più ricchi il budget non potrà passare.
I minnesotani, in buona parte discendenti degli immigrati tedeschi e scandinavi, noti per la loro pacatezza e gentilezza (il famoso “Minnesota nice” su cui ironizza spesso il cinema americano: memorabile il noir dei fratelli Coen, “Fargo”), non sembrano troppo sconvolti.
I giornali e le televisioni locali offrono giornalmente una “guida allo shutdown”, come se si trattasse di un fenomeno naturale, alla stregua della siccità o delle cavallette. Non ci sono segni di proteste o manifestazioni da parte dei cittadini. Ma la questione dello shutdown del Minnesota è una questione nazionale. Il Minnesota sta passando attraverso questa crisi come una prova generale di quello che potrebbe succedere al governo federale se i democratici e i repubblicani a Washington non dovessero trovare l’accordo sull’innalzamento del tetto del debito federale prima del 2 agosto.
Simile tra St. Paul e Washington è la divisione del governo tra il potere monocratico in mano ai democratici e il potere legislativo in mano ai repubblicani; simile la spaccatura nell’elettorato (il Minnesota è andato al riconteggio nelle ultime elezioni, per quella del senatore Franken nel 2008 e per quella del governatore Dayton nel 2010); simile l’irrigidimento della posizione repubblicana su una linea ormai indistinguibile da quella dell’anarchismo fiscale del Tea Party.
Il Minnesota è un laboratorio politico del Partito repubblicano post- Bush: la candidata alla presidenza Michelle Bachmann, nativa del vicino stato dell’Iowa, ha qui in Minnesota il suo collegio elettorale; si tenne a St. Paul la convention repubblicana che lanciò Sarah Palin nel settembre 2008; l’ex governatore del Minnesota, il grigio Tim Pawlenty, corre per la presidenza come diretto concorrente di Bachmann e di Romney. Il caso del Minnesota è rivelatore dell’animus del Partito repubblicano contemporaneo, il cui solo punto in agenda è il fallimento della presidenza Obama, costi quel che costi.
Anche in uno Stato, come il Minnesota, che nella memoria pubblica dell’americano medio era noto per la sua sensibilità di tipo scandinavo al welfare, il Partito repubblicano ha sposato una linea di estremismo fiscale che toglie ai poveri per dare ai ricchi. È in Minnesota che l’America inizia a pagare il conto di quest’amaro Tea Party.
Il governatore democratico Mark Dayton, eletto a fine 2010, e la maggioranza repubblicana eletta insieme a lui non si sono accordati sul budget entro la scadenza del 30 giugno. La maggioranza repubblicana aveva approvato un budget di 34 miliardi di dollari senza alcun incremento di imposte, ma Dayton aveva posto il veto. Così, dal primo giorno di luglio 2011 il governo e tutte le attività e i servizi “pubblici” dello stato sono chiusi fino a nuovo ordine, ovvero fino a quando le due parti non riusciranno a trovare un accordo sul nuovo budget dello stato.
Finora i colloqui non hanno portato da nessuna parte: non ha sortito effetti neppure il tentativo di mediazione del più celebre enfant du pays, Walter Mondale, vicepresidente di Carter, candidato alla presidenza nel 1984 e idolo della politica democrat locale.
Le conseguenze dello shutdown sono legalmente chiare – ogni attività finanziata con denaro dello stato si blocca – ma in pratica la situazione è molto meno chiara. È chiaro ai dipendenti dello stato (circa 22.000) il fatto che dall’inizio di luglio sono tecnicamente senza lavoro e che quindi inizieranno a ricevere l’assegno di disoccupazione. Meno chiare sono altre situazioni (pratiche per patenti, adozioni, contratti di appalto, etc.), per cui le corti legali funzionano a ciclo continuo (e anche per telefono) in modo da poter decidere caso per caso quali attività lo stato del Minnesota deve continuare a finanziare perché “essenziali” e quali invece non sono essenziali.
Non sono chiari, ad esempio, gli effetti che lo shutdown avrà sulle borse di studio e i prestiti per studenti meritevoli. Se le università private saranno lambite solo marginalmente da questa crisi, diversa è la situazione per quelle statali. Non si sa per quante settimane potranno continuare a funzionare i trasporti pubblici, che ora funzionano con fondi di riserva. Sembra molto chiaro, invece, che lo shutdown contribuirà a deprimere l’economia del Minnesota, che dal 2008 ad oggi era stata meno toccata di altre aree degli Stati Uniti dalla crisi dei mutui e dalla disoccupazione.
Nei giorni immediatamente precedenti alla scadenza ultima per evitare la crisi, alla vigilia del ponte per la festa del 4 luglio, i minnesotani paventavano lo shutdown per la chiusura dei parchi nazionali nei quali speravano di campeggiare e dei musei storici che speravano di visitare. Ma a due settimane dall’inizio dello shutdown la situazione è ancora bloccata, con nessun segnale di avvicinamento tra le due parti: lo shutdown del Minnesota è diventato il più lungo nella storia degli Stati Uniti.
Nei giorni scorsi il governatore Dayton aveva prima proposto di aumentare temporaneamente le tasse sul reddito dei minnesotani che guadagnano più di un milione di dollari all’anno, poi aveva avanzato l’idea di alzare le tasse sulla vendita delle sigarette. I repubblicani hanno rigettato entrambe le proposte, all’insegna del rifiuto di qualsiasi aumento del gettito fiscale, sotto qualsiasi forma: la sola soluzione sembra essere, per i repubblicani, il taglio dei servizi in uno stato che negli ultimi anni, sotto il governatore repubblicano Pawlenty, aveva già tagliato molto.
Il governatore Dayton ora ha preso le strade del Minnesota per tentare di spiegare ai cittadini quello che sta succedendo, e per convincerli che senza un aumento delle tasse sui più ricchi il budget non potrà passare.
I minnesotani, in buona parte discendenti degli immigrati tedeschi e scandinavi, noti per la loro pacatezza e gentilezza (il famoso “Minnesota nice” su cui ironizza spesso il cinema americano: memorabile il noir dei fratelli Coen, “Fargo”), non sembrano troppo sconvolti.
I giornali e le televisioni locali offrono giornalmente una “guida allo shutdown”, come se si trattasse di un fenomeno naturale, alla stregua della siccità o delle cavallette. Non ci sono segni di proteste o manifestazioni da parte dei cittadini. Ma la questione dello shutdown del Minnesota è una questione nazionale. Il Minnesota sta passando attraverso questa crisi come una prova generale di quello che potrebbe succedere al governo federale se i democratici e i repubblicani a Washington non dovessero trovare l’accordo sull’innalzamento del tetto del debito federale prima del 2 agosto.
Simile tra St. Paul e Washington è la divisione del governo tra il potere monocratico in mano ai democratici e il potere legislativo in mano ai repubblicani; simile la spaccatura nell’elettorato (il Minnesota è andato al riconteggio nelle ultime elezioni, per quella del senatore Franken nel 2008 e per quella del governatore Dayton nel 2010); simile l’irrigidimento della posizione repubblicana su una linea ormai indistinguibile da quella dell’anarchismo fiscale del Tea Party.
Il Minnesota è un laboratorio politico del Partito repubblicano post- Bush: la candidata alla presidenza Michelle Bachmann, nativa del vicino stato dell’Iowa, ha qui in Minnesota il suo collegio elettorale; si tenne a St. Paul la convention repubblicana che lanciò Sarah Palin nel settembre 2008; l’ex governatore del Minnesota, il grigio Tim Pawlenty, corre per la presidenza come diretto concorrente di Bachmann e di Romney. Il caso del Minnesota è rivelatore dell’animus del Partito repubblicano contemporaneo, il cui solo punto in agenda è il fallimento della presidenza Obama, costi quel che costi.
Anche in uno Stato, come il Minnesota, che nella memoria pubblica dell’americano medio era noto per la sua sensibilità di tipo scandinavo al welfare, il Partito repubblicano ha sposato una linea di estremismo fiscale che toglie ai poveri per dare ai ricchi. È in Minnesota che l’America inizia a pagare il conto di quest’amaro Tea Party.
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