Clicca qui per il nuovo sito di Articolo 21 »
Ricerca con Google
Web articolo21.info
 
 
Articolo 21 - ESTERI
Kamiar Alaei: “Io e mio fratello, ricercatori iraniani perseguitati dal regime”
Condividi su Facebook Condividi su OKNOtizie Condividi su Del.icio.us.

di Cristina Annunziata *

Kamiar Alaei: “Io e mio fratello, ricercatori iraniani perseguitati dal regime”

Da qualche mese Kamiar Alaei è tornato alla sua vita di medico e di ricercatore. Eppure la sua anima è come divisa in due. Una metà lavora in un centro di ricerca statunitense, partecipa a convegni internazionali, studia, si aggiorna. L’altra metà è rimasta indietro, nella prigione di Evin a Teheran. Di lì Kamiar è uscito a novembre del 2010; e lì suo fratello Arash si trova ancora, con la prospettiva di doverci restare per altri tre anni.
I fratelli Alaei sono ritenuti i due pionieri della lotta all’AIDS in Iran. Il loro centro di ricerca e cura, a Kermanshah, era stato considerato il migliore del Medio Oriente e aveva ottenuto un finanziamento di sedici milioni di dollari dalla Nazioni Unite. Rappresentavano un’immagine moderna, positiva del loro paese. Invece, un giorno del 2008, sono stati arrestati. “Mio fratello Arash – racconta Kamiar – è stato preso la sera prima di me. Lo hanno fermato a un distributore di benzina. L’indomani, alle sette del mattino, hanno fatto irruzione in casa mia e hanno portato via anche me. Mi sollevava sapere che Arash non fosse solo, invece gli hanno detto del mio arresto soltanto tre mesi dopo”.
Processati a porte chiuse, Kamiar e Arash Alaei sono stati condannati rispettivamente a tre e a sei anni di carcere per avere attentato alla sicurezza nazionale collaborando “con un governo nemico”.  Il governo nemico era quello degli Stati Uniti, paese in cui i fratelli Alaei si erano più volte recati per ragioni di lavoro, senza avere mai rapporti con le autorità politiche, ma solo con istituzioni scientifiche. “È un capo d’accusa paradossale – dice Kamiar Alaei – se si pensa che gli Stati Uniti non sono mai stati ufficialmente inseriti nella lista dei paesi dichiarati nemici dall’Iran. E quando ci siamo recati in America, siamo sempre stati regolarmente autorizzati dal nostro ministero. Tutto si svolgeva alla luce del sole.”

Prima del vostro arresto, avevate mai avuto la percezione che il vostro lavoro fosse osteggiato o malvisto dalle autorità della Repubblica Islamica?

Chiunque in Iran lavori per un ente pubblico, o per una istituzione riconosciuta a livello nazionale, può recarsi temporaneamente all’estero solo se ha un regolare permesso. Questo valeva anche per noi. Tutto avveniva in assoluta legalità, secondo gli standard della Repubblica Islamica dell’Iran. Dal 2005 – anno del primo mandato di Ahmadinejad – fino ai giorni dell’arresto, avvenuto nel 2008, abbiamo concentrato tutte le nostre energie sul progetto quinquennale finanziato dall’UNDP (United Nations Development Programme). In quegli anni i  viaggi negli Stati Uniti erano frequenti visti i continui scambi – necessari – e i rapporti con enti di ricerca e università all’estero.
In America entravamo in contatto con centinaia di studenti iraniani che si erano trasferiti lì. Ogni anno decine di loro ripartivano per l’Iran allo scopo di lavorare due o tre mesi come volontari nel nostro centro a Kermanshah. Tanti hanno deciso di rientrare definitivamente in Iran per dedicarsi al progetto. Abbiamo contribuito a esportare una immagine vincente e all’avanguardia della Repubblica Islamica dell’Iran nel campo della ricerca scientifica. Siamo stati persino accusati di essere strumenti di propaganda per il governo iraniano, di essere troppo accondiscendenti nei suoi confronti. In realtà la priorità per noi era tutelare il più possibile il nostro progetto che avrebbe potuto salvare centinaia di vite.
Come potevamo prevedere, in una situazione simile, che saremmo stati arrestati?

Lei e suo fratello Arash siete considerati i pionieri della lotta all'AIDS in Iran e i vostri metodi di lavoro sono stati considerati i migliori di tutto il Medio Oriente. Ci può spiegare quale tipo di approccio scientifico e terapeutico avete adottato?

L’ostacolo maggiore da superare era il pregiudizio rispetto alla malattia, che impediva a chi aveva contratto il male di presentarsi in una clinica per curarsi. Abbiamo così iniziato a cercare le persone per strada, nelle sale da tè, nei punti di maggiore ritrovo ed aggregazione. Prendevamo contatti con loro e un numero sempre più alto di persone accettava di farsi curare. Siamo riusciti a creare una rete sempre più fitta di relazioni in cui era possibile coinvolgere chi era diventato un nostro paziente nella promozione della cura.
La nostra struttura terapeutica mirava non solo alla cura della malattia, ma anche alla prevenzione e al sostegno sociale e morale ai familiari dei pazienti. Non a caso il nome che abbiamo scelto per il nostro centro in Kermanshah era “clinica di cura triangolare” con riferimento a questi tre obiettivi. Era importante per noi creare anche un legame di solidarietà e sostegno reciproco tra i sieropositivi, neutralizzando timori e diffidenze. A questo scopo coinvolgevamo i pazienti in attività extra ospedaliere – sulle montagne nei dintorni di Kermanshah per esempio – come la raccolta di siringhe e cose simili.

Con l’aiuto di chi e con quali fondi siete riusciti ad andare avanti?

Il centro, avviato nel 1999, era diventato in breve un motivo di orgoglio nazionale. Ci fu richiesto di aprire una struttura simile anche in Afghanistan. Sull’onda dei riconoscimenti nazionali e internazionali cercammo di ottenere sostegni finanziari. L’UNDP (United Nations Development Programme) approvò un progetto quinquennale (2005 – 2010) con un finanziamento di sedici milioni di dollari. Nell’ambito del progetto, abbiamo esteso il nostro programma terapeutico anche a prigionieri e detenuti, ottenendo che le spese terapeutiche rientrassero nel finanziamento, e che dunque questi pazienti venissero curati gratis.

Come si spiega, allora, l’ accanimento delle autorità iraniane nei vostri confronti?

Non me lo spiego. Tanto più se si pensa che il centro è tuttora attivo, con medici che per gli stessi motivi continuano legalmente a viaggiare negli Stati Uniti e a rientrare nel paese esattamente come facevamo io e mio fratello Arash.
Se fai attivismo politico, in Iran, ti aspetti di essere arrestato da un momento all’altro. Ma quando sei un ricercatore e un medico e lo stesso governo ti dà la possibilità di fare il tuo lavoro (un lavoro che riconosce ufficialmente), è difficile darsi una spiegazione.

Le università americane ed europee sono piene di studiosi iraniani che fanno ricerca non certo per aiutare i “nemici” dell'Iran, ma con l'intenzione di apprendere nozioni da mettere poi al servizio del loro paese. Questo vuol dire che potenzialmente tutti loro sono a rischio di essere imprigionati e condannati?

Il paradosso consiste proprio in questo, cioè che la situazione non è ben definita. La linea che separa ciò che è lecito per il governo da ciò che non lo è non è mai netta. È come un incrocio senza semaforo: qualcuno ti ferma e ti multa perché non hai rispettato il semaforo rosso, ma quel semaforo non esiste!

Lei è stato condannato a tre anni, suo fratello a sei. Perché questa differenza tra voi?

La causa è la maggiore età di mio fratello. In una situazione inversa sarei io ad essere ancora rinchiuso in prigione. Non oso nemmeno pensare se fossimo stati gemelli…

Evin è un carcere tristemente noto nel mondo per quello che accade al suo interno. Qual è stata la sua esperienza di Evin?

Dopo otto mesi di detenzione io e mio fratello Arash siamo stati trasferiti in una cella comune, tra gli altri prigionieri politici. Successivamente abbiamo chiesto di poter essere trasferiti nel braccio dei detenuti tossicodipendenti. Avevamo voglia di renderci utili e provare ad aiutare qualcuno di questi prigionieri. Siamo stati accontentati e trasferiti. Nel nuovo braccio spesso riuscivamo ad organizzare anche momenti di svago come partite a calcio tra i detenuti.

[Mostriamo al dottor Kamiar Alaei una foto sbiadita. Nell’inquadratura ci sono suo fratello Arash insieme a Farzad Kamangar, insegnante, poeta e attivista curdo, giustiziato a Evin ormai più di un anno fa. Posano nella foto di gruppo della squadra di calcio costituita in prigione.]
Dopo le elezioni del giugno 2009 a Evin sono arrivati molti prigionieri politici, alcuni di loro sono stati anche impiccati, nel frattempo. Voi in quel momento eravate già in prigione. Come avete percepito, da dentro Evin, questa ennesima svolta repressiva? È cambiato qualcosa, a Evin, dopo il giugno 2009?

Farzad.... Ricordo i momenti delle partite a calcio insieme...
Dopo le elezioni di giugno del 2009, l’arrivo di decine e decine di prigionieri politici ha suscitato diverse reazioni cambiando molti equilibri sia tra il personale carcerario sia tra i detenuti comuni. Le guardie, ricordo, erano contrariate. Reagirono malissimo all’arrivo di centinaia di prigionieri politici, che erano fondamentalmente centinaia di innocenti. Tra i detenuti comuni, invece, iniziò a svilupparsi e a crescere una grande solidarietà nei confronti dei nuovi arrivati. Fino a quel momento i prigionieri politici erano stati malvisti o guardati con diffidenza dai detenuti comuni. Erano considerati per la maggior parte gente ricca che aveva tempo disponibile per occuparsi di politica. Ma dopo il 2009 le cose sono cambiate.
Ricordo che alla veglia per Farzad erano presenti cinquemila detenuti: tutto il carcere di Evin.

La comunità scientifica internazionale si è mobilitata per lei e per suo fratello Arash. Cosa pensa che si possa fare per lui, che è ancora in carcere con tre anni di pena da scontare?

Credo che per poter essere d’aiuto sia importante creare una sorta di network tra tutte le piccole associazioni o organizzazioni che si occupano di diritti umani e non solo di Iran. Collaborare e lavorare sugli stessi obiettivi tutti insieme in modo da fare maggior pressione sul governo iraniano. Grosse organizzazioni come Amnesty International sono state, a torto, tacciate dal regime di ricevere finanziamenti dai nemici occidentali dell’Iran, come l’Inghilterra, e di agire, perciò, assecondando la loro linea politica. Ma se decine di organizzazioni, anche piccole e meno importanti, denunciano le violazioni di diritti in Iran, forse sarà più difficile per il governo iraniano continuare ad affermare che tutti prendono soldi dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti.

*Presidente di Iran Human Rights Italia Onlus

Petizione per il rilascio del dottor Arash Alaei: http://iranfreethedocs.org/petition/


Letto 8302 volte
Dalla rete di Articolo 21