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Cie, la rivolta
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di Andrea Sarubbi*

Cie, la rivolta

Le agenzie di stampa dicono che stanotte c’è stata una rivolta al Cie di Ponte Galeria, con alcuni poliziotti feriti. Vero, per carità: gli agenti sono 11, tutti refertati. Ma è curioso che nessuno dica una parola sugli immigrati feriti, e che per sapere qualcosa sia necessaria l’informazione semiclandestina: quella di Gabriele Del Grande su Fortress Europe, che – dopo aver raccontato in diretta la cronaca di stanotte, grazie alle telefonate di immigrati reclusi – ha lanciato un appello ai parlamentari di buona volontà, perché andassero a verificare di persona. Così ho fatto, e sono appena tornato da lì con l’impressione che qualcosa da chiarire ci sia: come ho detto espressamente al dirigente del ministero, con il quale avevo familiarizzato già lunedì scorso, non vorrei che si facesse la fine del G8.

Riassumo in breve. In settimana arrivano da Milano al Cie dieci immigrati algerini, che rifiutano di essere identificati: non vogliono parlare neppure con il console, che va a visitarli. Uno di loro ha problemi fisici e viene portato all’ospedale Grassi di Ostia, dove tenta subito la fuga: si nasconde in un controsoffitto, ma poi crolla per terra e si fa pure male. Gli altri cercano di scappare ieri sera, verso le 23.30: in 6 si arrampicano su corde fatte con le lenzuola e scavalcano le sbarre, ma in 5 vengono ripresi immediatamente, mentre uno riesce a fuggire. Quando i 5 fuggitivi vengono riportati dentro, nel Cie scoppia il finimondo: i detenuti segano una sbarra, si introducono nell’area archeologica e prendono delle pietre, che spaccano e cominciano a tirare contro gli agenti. A questo punto, le versioni sono due: quella delle forze di sicurezza dice che i 5 vengono messi in una stanza nell’attesa che il personale riesca a identificarli, senza che nessuno tocchi loro un dito; quella degli algerini dice che i poliziotti li picchiano duramente, arrivando addirittura a schiacciare con un piede la testa di uno di loro. “Lo hanno fatto davanti alle donne, per umiliarci”, dice qualcuno, ma nel reparto femminile cerco conferme e non ne ottengo. Vedo però le ferite, le fasciature, i riconoscibilissimi segni del manganello, e uno di loro chiede di fare una radiografia perché mi racconta di aver vomitato dopo aver preso un violento pugno in pancia: insomma, qualcosa è successo davvero. Solo che nessuno ha le prove, e quando si tratta di parola-contro-parola sappiamo tutti che non è facile venirne fuori. Neanche la polizia scientifica, poi, scatta una foto agli immigrati feriti, quando stamattina viene a fotografare i parecchi danni provocati dalla rivolta: materiali elettrici distrutti, generatori e pompe rovinati, plexiglass divelti, materassi bruciati, e credo pure di essermi dimenticato qualcosa, perché per tre ore si assiste davvero a una guerriglia. La calma, si fa per dire, ritorna verso le 3 e mezza di notte, ma ancora oggi la situazione è molto tesa: i detenuti si rifiutano di mangiare e di bere perché non vengono tolti i lucchetti dalle gabbie dei cortili, impedendo loro di uscire almeno nel corridoio comune. Così, quando arrivo, riesco a spuntare una mediazione: acqua e cibo per tutti e gabbie aperte, in cambio dell’assicurazione da parte degli immigrati che non scoppierà un’altra rivolta. Me ne vado via dopo un paio d’ore, con qualche altra fotocopia in mano – da portare al mio amico Ernesto Ruffini, di professione avvocato e di vocazione avvocato dei disperati – e con la stessa domanda in testa: possibile che un Paese civile, storicamente impegnato nella difesa dei diritti umani, scenda ad un livello così basso di umanità in nome del legittimo bisogno di sicurezza? Possibile che in una parte dell’Europa badanti e muratori in nero con il permesso di soggiorno scaduto vengano trattati peggio di un attentatore che in un’altra parte d’Europa ha compiuto una strage? Perché il carcere di Halden, sia ricordato per inciso, rispetto al Cie di Ponte Galeria è un residence per famiglie.

* Deputato Pd


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