di Bruna Iacopino
Roma in "movimento" contro i moderni "lager"
Parola d’ordine: “ Chiudiamo il Cie di Ponte Galeria! Chiudiamo tutti i Cie!”. Con questo slogan è partita la settimana di mobilitazione che attraverserà la Capitale con una serie di iniziative, azioni dimostrative, sit-in di protesta. Eventi cardine, l’ “assedio sonoro” al Ministero dell’Interno giovedì pomeriggio e il sit-in proprio di fronte a Ponte Galeria, teatro, nei mesi scorsi di episodi di rivolta da parte degli immigrati che vi si trovano reclusi, sabato. Una mobilitazione che vuol essere non solo una protesta contro quella che a tutti gli effetti è la palese violazione di un diritto fondamentale, “la libertà individuale” soprattutto dopo l’estensione del periodo di permanenza da 2 a 6 mesi, ma che vuole cercare di attrarre l’attenzione su una realtà pressoché ignorata e ignota ai più. I Cie attualmente in funzione in Italia sono 13, “tali centri- si legge sul sito del Ministero degli Interni - si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul territorio e di consentire la materiale esecuzione, da parte delle Forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione emessi nei confronti degli irregolari.” Di essi, però, poco si sa e poco trapela. Nella maggior parte dei casi la possibilità di accesso è praticamente negata, soprattutto per chi, come le organizzazioni umanitarie, le associazioni, la stampa avrebbero il diritto di raccontare quello che lì dentro quotidianamente avviene . Indicativo da questo punto di vista il rapporto stilato da Medici senza frontiere e pubblicato nel febbraio di quest’anno. “I centri per immigrati – si legge nell’abstract dello stesso- sembrano operare come enclave con regole, relazioni e dimensioni di vita propri, senza controlli esterni e di indicatori di qualità.” Enti autonomi e gestiti diversamente da città a città: ecco spiegato perché ad esempio, è possibile effettuare e ricevere telefonate in alcuni di essi, mentre in altri i cellulari non sono permessi. All’interno di queste strutture, evidenzia il rapporto MsF, è possibile incontrare persone dalle storie più disparate, dalle vittime di tratta, sfruttamento, tortura, a uomini e donne che hanno semplicemente perso o mai avuto il permesso di soggiorno, ma in Italia vivono da anni e magari hanno una casa e una famiglia, dei figli, fino a coloro che soffrono di patologie, anche piuttosto gravi e che, dentro il centro non possono usufruire di un’adeguata assistenza sanitaria, per non parlare del supporto psicologico. L’innalzamento dei tempi di detenzione ( per quanto istituzionalmente si continui a definire “ospiti” i reclusi dei Cie) ha parallelamente innalzato il livelli di tensione interni a questi luoghi, generando fenomeni di malessere diffuso e che, continuano a manifestarsi nei modi più vari: dagli atti di autolesionismo ai suicidi ( tentati o portati a termine) fino agli scioperi della fame che nei mesi scorsi si sono registrati da via Corelli a Ponte Galeria. E proprio da via Corelli, i primi di marzo di quest’anno era stata divulgata una lettera dai toni tanto drammatici quanto reali ma che scarsa eco aveva avuto da parte dei media: “Siamo stanchi di non vivere bene. Viviamo come topi. La roba da mangiare fa schifo. Viviamo come carcerati ma non siamo detenuti. I tempi di detenzione sono extra lunghi perché 6 mesi per identificare una persona sono troppi. Siamo vittime della Bossi Fini. C’è gente che ha fatto una vita in Italia e che ha figli qua, gente che ha fatto la scuola qui e che è cresciuta qui. Non è giusto. Non siamo delinquenti.” Storie che bucano il muro dell’omertà soltanto quando i protagonisti arrivano a compiere gesti estremi, dettati dalla disperazione, come le labbra cucite con ago e filo di un’immigrata maghrebina nel Cie di Bologna, che si è vista respingere la richiesta d’asilo, gesto replicato nel Cie di Restino vicino Brindisi, da un uomo afghano cui era stato impedito di contattare la famiglia, in particolare i figli.
Storie di tutti i giorni, storie invisibili. La settimana di mobilitazione promossa da antirazziste/ i ha proprio questo scopo: ricordare ad un’opinione pubblica assopita che realtà di questo tipo esistono e stanno a pochi metri da noi. Non in paesi dittatoriali, ma nella nostra Italia democratica.
GLI APPUNTAMENTI DEL NO BORDER WEEK