di Valter Vecellio
Immaginiamola, la scena, anche se richiede tutto lo sforzo di cui si è capaci, e probabilmente non ci si riesce. Immaginiamola, la scena: anche se supera ogni possibile macabra fantasia. C’è una donna di 82 anni; sta male, molto male. Soffre di diabete, e di tutte le complicazioni che la malattia e l’età comportano. Questa donna si chiama Licia, sta cosi’ male che si rende necessario il ricovero in ospedale, ed è la’ che la portano i familiari. Perché abbia assistenza, perché i medici l’aiutino a superare la crisi. Licia arriva dunque all’ospedale San Camillo di Roma, e qui si consuma l’incredibile, inimmaginabile, l’orrore.
Questa donna sofferente e anziana, infatti viene lasciata per ben ventun ore abbandonata su una sedia a rotelle. Si trova al Pronto Soccorso, ma trascorrono lunghe interminabili ventun ore, prima che qualcuno si decida a occuparsi di lei. La signora Licia ha una figlia, Antonella. Racconta: “L’hanno classificata come ‘codice verde’, è deceduta dopo 48 ore, a causa di una emorragia cerebrale. Ha vissuto le sue ultime ore in modo indegno, insieme a decine di altre persone sofferenti, ammassate in pronto soccorso, senza che i medici per molte ore la visitassero”.
Si’, abbiamo capito bene: “codice verde”, emorragia cerebrale. Ammassata insieme a decine di altre persone sofferenti, senza che i medici per molte ore la visitassero”. Dov’erano questi medici, cosa facevano? E come mai in un ospedale centrale di Roma si puo’ finire ammassati e morire senza ricevere assistenza?
C’è di piu’ e c’è altro in questa storia. C’è che la signora Licia «ha dovuto fare i suoi bisogni per terra, riparata dalle figlie, perché non le hanno dato neanche il catetere».
Non ci si crede, vero? E’ sempre Antonella, la figlia che parla. Racconta che nonostante le insistenze si sente dire da un medico che tanto si tratta di un “codice verde”; ma che anche se si fosse trattato di un ictus ormai era tardi, non era un caso urgente; cosi’ la signora Licia rannicchiata su quella sedia a rotelle ci trascorre la notte: «Nel pronto soccorso c'erano decine di persone, tutte sulle barelle, in condizioni inaccettabili. L'umiliazione maggiore quando ha dovuto fare la pipì, riparata come si poteva. Trascorrono le ore, nessuno si occupa di lei. Io e mia sorella ci diamo il cambio. Mia madre...dorme su quella sedia, appoggiando le gambe come può su una poltrona. Ci dicono i parenti di altri pazienti: funziona così, ci sono anche codici rossi parcheggiati da due o tre giorni. Le hanno fatto solo due elettrocardiogrammi e due prelievi di sangue...».
Si arriva a mattina. Le figlie chiedono un cambio di lenzuola per la madre stremata, e – almeno – l’assistenza di un'infermiera; ne ricevono una rispostaccia: «Ho dovuto farla mangiare appoggiando il vassoio per terra. Eppure eravamo arrivati alle 17 del giorno prima».
Sta sempre piu’ male, la signora Licia; qualcuno dispone una TAC; e finalmente alla signora Licia si riconosce il «il codice rosso», viene intubata. Trascorre così una seconda notte di agonia, questa volta nel reparto medicina d'urgenza, fino a quando non sopraggiunge la morte.
In estrema sintesi: la signora Licia arriva al pronto soccorso il 14 luglio 2011 alle 17; è classificata “codice verde”. Trascorre la notte su una sedia a rotelle. Dopo trenta ore è in coma. Il 16 luglio alle 17,45 muore per un'emorragia cerebrale.
Una storia incredibile. Una storia di orrore. Una storia che pero’ non deve far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
SIENA- Pero’ andiamo a Siena. Citta’ ricca, Siena. Citta’ da sempre di sinistra. E citta’ di provincia, dove tutto e’ piu’ semplice, piu’ facile. Piu’ umano.
Al reparto di cardiologia dell’ospedale della città, muore una donna di 82 anni. Muore dopo ben ventidue giorni di penosa, straziante agonia. Cos’é successo? La causa potrebbe essere imputabile a un errore nell'operazione di trasfusione di sangue. E’ una vicenda che inizia il 4 luglio, quando la signora, una pensionata di Sansepolcro viene ricoverata al Policlinico di Santa Maria alle Scotte per problemi cardiaci; il personale sanitario si sarebbe accorto che il sangue utilizzato nella trasfusione non era compatibile con il gruppo sanguigno dell'anziana paziente, ma ormai è tardi: le condizioni della donna peggiorano giorno dopo giorno, fino a quando, dopo 22 giorni di agonia muore.
Anche questa è una storia incredibile. Una storia di orrore. Una storia che pero’ non deve far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
Passiamo alla terza storia. Verona, ne parla il quotidiano locale, “L’Arena”: un neonato, venuto alla luce il 5 luglio, dopo un intervento con parto cesareo, muore quattro giorni dopo. Il neonato presenterebbe uno «strano taglio» alla pancia; cos’è accaduto? Il padre, che non sa darsi pace presenta una denuncia. Tutto comincia il 3 luglio, quando la futura mamma, alla ventottesima settimana di gravidanza, si presenta in ambulanza al pronto soccorso della maternità dell'ospedale di Borgo Trento. La donna viene visitata e rimandata a casa, il ricovero è ritenuto necessario. Al pomeriggio la donna pero’ torna e questa volta si dispone subito il ricovero: primi esami, iniezioni, infine si effettua un'ecografia; i risultati sono tranquillizzanti, dicono i sanitari al futuro padre. E però qualcosa non va per il giusto verso. La situazione si modifica: un medico e un'ostetrica sono chiamati d’urgenza, la donna portata in sala operatoria, si pratica il cesareo. Qui la ricostruzione si fa concitata: il padre è informato dai medici che il bambino era nato, ma ha uno «strano taglio alla pancia», per questo motivo si decide di trasferirlo al policlinico di Borgo Roma. Uno strano tagli? Che significa? Intanto viene effettuato un nuovo intervento, sul piccolo. L'operazione dura tre-quattro ore, il risultato è sconvolgente: un medico informa il padre che «lo strano taglio» è stavolta un «taglio vistoso dal quale erano fuoriusciti i visceri», con alcuni organi danneggiati e spostati». Il piccolo dopo quattro giorni di agonia, muore. Che diavolo è accaduto in sala operatoria?
Anche questa una storia incredibile. Anche questa una storia di orrore. Una storia che pero’ non deve far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
MESSINA- Ora una storia che ha fatto scalpore, ne ha parlato anche la TV. Siamo al reparto di rianimazone del Policlinico di Messina. Da due mesi in quel reparto è ricoverato un uomo di 55, per un'emorragia celebrale causata da un aneurisma. I parenti che vanno a trovare quel malato scoprono una cosa da brivido: sul corpo ci sono delle larve. A parlare ora è la moglie, signora Maria: «Da 10 giorni vedevamo volare dei moscerini nella stanza dove si trova ricoverato mio marito, ma nonostante avessimo chiesto più volte un intervento dei sanitari loro non hanno fatto nulla. Avevo chiesto insieme a mia figlia di coprire con una garza il naso e la bocca di mio marito per evitare che questi insetti deponessero uova o si appoggiassero su di lui ma siamo state quasi derise. Poi ieri sui peli interni del naso abbiamo notato le larve. È stata una scena agghiacciante, mio marito sembrava un morto. A quel punto abbiamo chiamato la polizia che subito è intervenuta».
Ripetiamo: da dieci giorni svolazzano moscerini. Si chiede un intervento, che viene negato. Di piu’: alla richiesta di assistenza si viene derisi, fino a quando non si rende necessario l’intervento della polizia...
C’è un medico che conferma l’accaduto, il professor Sinardi, direttore dell'unità operativa: racconta di aver tolto le larve dal naso del paziente. Dite che è uno schifo? Si’, è uno schifo. Dite che è una vergogna? Si’, è una vergogna. Dite che vi si rivolta lo stomaco? Si’, ma solo a voi. Al reparto rianimazione del Policlinico di Messina, invece, lo stomaco ce l’hanno ben forte, a loro non si e’ rivoltato... Ancora il professor Sinardi: “È vero erano presenti delle piccole larve sul naso di un nostro paziente ricoverato, ma subito siamo intervenuti eliminandole. L'uomo è stato sottoposto ad una visita da parte di un otorino che ha escluso la presenza di altre larve”.
Ripetiamolo. È una storia incredibile. Una storia di orrore. Una storia che pero’ non deve far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
ROMA- Torniamo a Roma. “Il Messaggero” scopre una storia che se l’avesse raccontata uno scrittore in un suo romanzo l'avremmo buttato via, perché va bene l’immaginazione, ma a tutto c’è un limite. Ci dovrebbe essere un limite. Ma il limite a quanto pare non c’è mai.
Il protagonista di questa storia è un signore, si chiamava Giorgio Manni, per sei volte va al pronto soccorso, in quattro differenti ospedali, soffre, sta male, chiede aiuto, non ce la fa piu’ a respirare, chiede di essere ricoverato; e per ben cinque volte lo rimandano a casa. Fino a quando muore. Una storia che racconta la sorella, signora Teresa; “Abbiamo implorato invano i medici di fare qualcosa perché mio fratello stava sempre peggio, ma al pronto soccorso di Subiaco hanno risposto scrivendo: si ribadisce l'assoluta incongruità di accessi al pronto soccorso, ancor più se effettuati utilizzando il servizio 118, per una sintomatologia cronica”. Bello, pulito, freddo e burocratico. Uno sta male, sta morendo. E si risponde che l’uso dei mezzi del pronto soccorso è “incongruo”. Assolutamente incongruo.
Manni soffriva di forti dolori alla schiena; le cure a cui si sottopone non servono a nulla. Il medico di famiglia consiglia una risonanza magnetica, ma c'è posto solo per il 30 luglio. Le condizioni intanto si aggravano, i dolori ora sono arrivati all'altezza dei reni. Si chiama il 118. Ora è la signora Teresa che parla: “L'ambulanza lo porta al pronto soccorso di Subiaco. Ha il volto giallo. Il medico lo visita e scrive che ha una lombosciatalgia resistente a terapia medica. Gli dicono di andare a casa e di fare quattro punture al giorno”. La situazione non migliora, i dolori sono sempre piu’ forti, il respiro è faticoso. “L'8 luglio chiamiamo di nuovo l'ambulanza, soffre come un cane. Al pronto soccorso di Subiaco non gli fanno quasi nulla: una flebo, misurano la pressione, rilevano la frequenza cardiaca”. Il medico scrive: “Paziente già valutato tre giorni fa e dimesso con chiara indicazione alla terapia domiciliare, torna alla nostra osservazione lamentando la medesima sintomatologia”. Stessa terapia con tre medicinali. Aggiunge il medico: “Si ribadisce l'assoluta incongruità di accessi in pronto soccorso, ancora più se effettuati utilizzando il servizio 118”. Peccato non sapere quando è congruo accedere al pronto soccorso e far uso del 118. Peccato. La notte del 9 luglio viene chiamata la guardia medica. Dopo la visita il responso. “Andate al pronto soccorso di Tivoli”. Il signor Manni viene condotto per la terza volta in pronto soccorso a Tivoli. Stesso verdetto: lombosciatalgia resistente alla terapia, stesse punture; a questo punto i familiari si rivolgono al pronto soccorso dell'ospedale Umberto I di Roma. La sorella Teresa: “Mio fratello entra al pronto soccorso dell'Umberto I alle 13.41, lo mettono su una sedia, dicono che c'è da aspettare. Lui non respira, perde la testa e comincia a urlare. Solo a sera lo portano in un altro stanzone con decine di altri pazienti sulle barelle. Lui mi sussurra: questo è un inferno, me sto a morì”.
Il giorno dopo il medico di base firma una richiesta di ricovero e consiglia di rivolgersi al CTO; al CTO il signor Manni viene sottoposto ai raggi x rachide lombosacrale, una visita generale, e rimandato a casa. “Mio fratello ha implorato il medico, tenetemi qua solo due giorni, io non respiro, sto morendo. Inutile. Ci hanno detto di comprare una bombola di ossigeno. Ma ogni notte mio fratello stava peggio. Quella notte l'ho trascorsa ad accudirlo, cercavo di dargli sollievo con asciugamani bagnati, lo portavo in balcone, non respirava. Al mattino Giorgio però è divenuto cianotico, ho capito che stava morendo. Ho telefonato al 118, ho urlato di correre.
La scena finale è tragica: codice rosso, Giorgio perde conoscenza, alla fine un medico dice alla sorella che ci sono poche speranze: “La situazione è seria. Aveva un versamento polmonare, bisognava operarlo, mi hanno detto che lo portavano a Tor Vergata”. La morte arriva il 15 luglio.
Ancora una storia incredibile. Una storia di orrore. Una storia che pero’ non deve far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
Pero’ mi fermo qui, ma di storie del genere, ne ho tante da farne un dossier di centinaia di pagine. E non ho neppure dovuto lavorare tanto, per metterlo insieme. Semplicemente ho sfogliato il bollettino delle interrogazioni parlamentari, quelle che presenta per ognuno di questi episodi la radicale Maria Antonietta Farina Coscioni, segretaria della commissione Affari Sociali. Interrogazioni presentate perché almeno ne resti una traccia, un “segno” in un atto parlamentare. A presente e futura memoria.
Con quale risultato? Ogni tanto il ministro della Salute Fazio risponde. Risposte che fan pensare che forse sarebbe meglio il silenzio.
CASSINO- Prendiamo per esempio il caso della signora Silvana, morta all'ospedale di Cassino a causa di un infarto che i medici avrebbero scambiato per una lombosciatalgia; è morta in ascensore, dopo ben otto ore di attesa, mentre finalmente veniva trasferita al reparto di ortopedia. Racconta il figlio della donna: “Quando siamo usciti dall’ascensore è pure caduta dalla sedia. Nel corridoio c'erano solo un ausiliario e un infermiere. Nessun medico. A quel punto mia madre è rimasta a terra per oltre dieci minuti, e poi è stata portata in una stanzetta, inadeguata, dove è rimasta altri dieci minuti in attesa di un medico. Ecco come è morta mia madre”. Ed ecco la risposta del ministro: “... La paziente, giunta al pronto soccorso dell'ospedale di Cassino con mezzo proprio dei familiari, veniva soccorsa ed immediatamente accettata al triage alle ore 12,31 del 4 febbraio 2011, con valutazione dei parametri vitali...Approfondita l'anamnesi ed effettuato l'esame clinico obiettivo, il personale sanitario ha eseguito un elettrocardiogramma e praticato un prelievo ematico, per valutare in particolare i valori dei cardioenzimi... L'evolversi della sintomatologia dolorosa, varia e polimorfa, toraco-addominale ed agli arti, soprattutto il destro, è stato oggetto anche di una consulenza ortopedica alle ore 16,40 circa...Successivamente, alle ore 20,44 è stato disposto il ricovero nella Uoc di medicina interna per il proseguimento dell'iter diagnostico, non essendo evidenti segni e sintomi di compromissione di parametri vitali tali da ritenere la paziente in condizioni critiche, ma, per mancanza del posto letto all'interno del reparto, veniva inviata nel reparto di ortopedia, dove era disponibile un letto. Alle ore 20,55 si verificava un arresto cardiaco: malgrado l'effettuazione delle procedure di rianimazione, alle ore 21,30 veniva constatato il decesso della paziente.
Questo Ministero non ritiene, allo stato, di dover avviare specifiche iniziative al riguardo, essendo tuttora in corso un'indagine sui fatti in questione da parte dell'autorità giudiziaria”.
Ma la signora Silvana ha dovuto o no attendere otto ore da infartuata, mentre il suo dolore veniva scambiato per lombosciatalgia? E' morta o no in ascensore? E’ o no caduta restando per dieci minuti a terra?
Al nuovo ospedale Garibaldi Nesima di Catania un architetto è morto in seguito a un intervento diretto a levare i punti di sutura messi in occasione dell'asportazione della radice di un dente. Secondo i legali della famiglia, è possibile che i medici non abbiano eseguito le prove ipoallergiche sulla tollerabilità alle sostanze contenute nell'anestesia.
Risponde il ministro: “Il direttore generale dell'ospedale Garibaldi-Nesima ha disposto che fosse attuato un test di farmacogenetica su un campione ematico del paziente, per rilevare l'eventuale presenza di poliformismi responsabili di risposte patologiche agli anestetici utilizzati. Gli esiti dell'analisi indicata hanno evidenziato, spiega, "che il paziente non presenta poliformismi genetici tali da poterlo definire patologico, pur essendo stato rilevato un poliformismo a livello di esotone/introne «6»". Questa mutazione, tuttavia, "non sarebbe stata individuata, in letteratura scientifica, ad oggi, come determinante effetto sull'attività enzimatica".
Davvero edificante, come risposta a chi chiede chiarimenti su come un paziente può morire in seguito a una banalissima operazione.
MARSALA- Ma accade anche che si presenti un’interrogazione sollecitando per ben otto volte una risposta che non arriva. E’ il caso che ha per protagonista la signora Vincenza Sorrentino di Marsala deceduta in seguito a un intervento di estrazione di calcoli dalla colecisti, effettuato nel reparto di chirurgia generale dell'ospedale "Paolo Borsellino" di Marsala. Operata il 15 luglio 2010, un primo segnale che qualcosa non è andato bene è dato dall'improvviso e inusuale aumento della temperatura corporea, mentre le ferite risultano sporche di un liquido indefinibile e i dolori non accennavano a diminuire. Cinque giorni dopo l'intervento la donna viene finalmente riportata d'urgenza in sala operatoria. L’intervento dura quattro ore, al termine del quale il chirurgo comunica ai figli che si è resa necessaria l’asportazione di un tratto di intestino perforato nel corso della precedente operazione; e che vuole essere lui a rimediare, riconoscendo di essere l'autore del precedente intervento. Le condizioni della donna tuttavia, anche dopo il secondo intervento restano critiche, al punto che viene trasferita d'urgenza al reparto di rianimazione dell'ospedale Civico di Palermo, dove si diagnostica uno stato ormai ''terminale'' e uno shock settico. Infine, la morte.
Dal settembre 2010 il deputato del Pd ha sollecitato la risposta per ben otto volte, inutilmente.
Storie incredibili. Storie di orrore. Storia che non devono far credere che i nostri ospedali siano luoghi di macelleria. Ci sono medici e personale qualificati, con coscienza, preparati e che svolgono il loro delicato e importante lavoro con passione e con lo spirito di una missione. Certo, è cosi’. Pero’...
E comunque: ministro Fazio, batta un colpo, non ci sono solo gli ospedali del presidente della CEI Angelo Bagnasco o il san Raffaele...