di Nicola Mirenzi
La musica che risuona nell’auto di Alì è quella di Ferhat Tunc e Ahmet Kaya. Alì canta sottovoce le loro canzoni mentre guida il taxi che mi accompagna in giro per Diyarbakir e dintorni. Appena gli chiedo chi siano gli autori di quelle canzoni, alza il volume al massimo, inorgoglito. Mi spiega che sono due musicisti curdi che hanno avuto vari problemi con le corti penali della repubblica turca per la loro appartenenza etnica e le loro idee politiche. Il perché di tanti conti aperti con la giustizia non è difficile da immaginare.
La rivendicazione dell’identità curda è ancora un problema nella Turchia dei dati economici strabilianti e della rinnovata volontà di potenza internazionale. E così, dopo anni di parole e discorsi sull’«apertura democratica» verso i curdi, il governo di Recep Tayyip Erdogan la scorsa settimana ha dovuto inviare un contingente di diecimila soldati nel sud est del paese per continuare a combattere i guerriglieri del Pkk.
Mentre l’aviazione turca si preoccupa di bombardare (sin da agosto) il nord dell’Iraq. Dove i militanti del Partito dei lavoratori curdi hanno le loro basi e da dove sempre più spesso lanciano le loro offensive. L’ultima delle quali, la scorsa settimana, ha ucciso 24 militari turchi.
Dopo l’attentato, il presidente della repubblica Abdullah Gül, solitamente misurato e mite, ha usato parole di fuoco: «Chi ha fatto soffrire la Turchia piangerà allo stesso modo», ha detto. E così è stato. Per le strade di Istanbul, Ankara, Izmir il dolore del lutto nazionale si è mescolato alla virulenza dell’istinto nazionalista turco.
Il tripudio di bandiere rosse con la mezzaluna bianca ha accompagnato i martiri della nazione nel loro trapasso oltremondano e legittimato nelle piazze e nelle strade la vendetta dell’esercito. Che finora ha ucciso più di cento guerriglieri.
Ma nonostante l’accumularsi di numeri di sangue, non si vedono passi avanti nella risoluzione della questione curda. Come ha commentato il sindaco di Diyarbakir, Osman Baydemir, se «prima 24 corpi sono stati spediti verso ovest», ora altre cento bare «saranno mandate verso est». Le madri piangeranno, e poi si ricomincerà daccapo.
«È una guerra che non finirà mai», dice a Europa Mehemet, un venditore di tè sulla diga di Egli, a una cinquantina di chilometri da Diyarbakir: «Noi vogliamo la nostra libertà, loro vogliono imporre la loro. Come potrà mai finire?».
Obietto a Mehemt che c’è la concreta possibilità di riconoscere l’identità curda nella nuova costituzione che il parlamento turco da qui a un anno redigerà. Sempre che i partiti curdi riescano a far valere le loro istanze. Ma è poco persuaso. «Hai sentito cos’ha detto Gül?», mi risponde. «Ha promesso che ci farà soffrire. E sai cosa significa? Che ci vogliono morti», mi dice.
Quando mi saluta, Mehmet apre l’indice e il medio. Disegnando con le dita il simbolo della vittoria, il contrassegno della guerra d’indipendenza curda.
Prima però vuole essere sicuro che abbia appuntato per bene il numero di telefono che mi ha dato. Ricontrolla due volte le cifre e il nome. È il sindaco della sua città. Ci tiene tanto.
Petek Capanoglu è una donna minuta e ferma. Amministra da tre anni la sua città. Suo padre era un politico curdo. Dopo il colpo di stato militare del 1980 venne incarcerato e torturato dall’esercito turco, come tantissimi altri militanti. Lei se ne andò dalla Turchia per un po’. Prima in Svezia, poi in Germania.
Torna nella sua terra natale solo alla fine degli anni Novanta e comincia a fare politica nei partiti curdi. Quelli che uno dopo l’altro vengono chiusi d’autorità dalla magistratura turca per supposta vicinanza al Pkk e che puntualmente risorgono sotto altri nomi e simboli – identici. L’ultima resurrezione si chiama Partito per la pace e la democrazia (Bdp). E alle ultime elezioni ha conquistato il sei per cento dei seggi. In una lista autonoma.
Le battaglie che combatte Petek vanno dal riconoscimento della differenza curda (con la possibilità di parlare e insegnare la loro lingua) sino all’emancipazione dalla condizione di disagio sociale ed economico che vive la popolazione del sud est.
Molti dei danni e delle morti che ha provocato il terremoto di Van (anch’essa una città curda) potevano essere evitati se le persone fossero state nelle condizioni di poter vivere in abitazioni vere e proprie anziché in baracche di muratura.
La questione curda, infatti, lungi dall’essere solo un problema di etnia e nazionalità, è anche una questione di povertà e finanze pessime. E i primi due governi Erdogan avevano cercato di affrontarne il nodo anche da questo punto di vista. Offrendo servizi e investendo denaro pubblico in queste zone.
E non a caso molti voti del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) venivano proprio da qui. La tendenza si è invertita cammin facendo e si è arrestata con la campagna elettorale di giugno. Quando Erdogan, con l’obiettivo di ottenere i due terzi dei seggi parlamentari (che gli consentivano di cambiare la costituzione da solo), ha cercato di espellere dal parlamento il partito nazionalista (in Turchia solo chi ottiene il 10 per cento dei voti viene rappresentato) adottando le sue parole d’ordine, nel tentativo di prosciugare il suo serbatoio elettorale.
Il punto è che da quando la campagna elettorale è finita Erdogan non sembra essersi più ripreso da questa deriva retorica nazionalista. Di «apertura democratica» – un tratto distintivo della sua politica – non si è sentito più parlare. E così la questione curda è stata affrontata solo dal punto di vista militare. Come se fosse soltanto una guerra tra lo stato turco e i terroristi del Pkk.
Mentre in mezzo ci sono soprattutto le canzoni di Alì e la rabbia di Mehmet. Nonché la possibilità di sedersi al tavolo con persone come Petek. Che pur portando su di sé le ferite inferte a suo padre dallo stato turco, sa che a un certo punto c’è bisogno di tirarsi su le maniche e far tacere il passato. Così, se Erdogan e i suoi perderanno l’occasione storica di includere nel nuovo processo costituente il partito curdo, dopo essere riusciti a ridurre notevolmente il potere dell’esercito nella vita pubblica, per il percorso verso la democrazia di Ankara sarà una battuta d’arresto significativa. E non è difficile presagire che gli incubi di sangue continueranno ad aggirarsi ancora a lungo per la Turchia.