di Valter Vecellio
28 luglio 2011: in occasione del convegno “Giustizia! In nome della Legge e del Popolo sovrano”, nella solenne sala Zuccari del Senato, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “scolpisce” parole di fuoco: parla di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all'impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell'estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile - strutture pseudo-ospedaliere che solo recenti coraggiose iniziative bi-partisan di una commissione parlamentare stanno finalmente mettendo in mora”.
Denuncia “l'abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale sulla funzione rieducatrice della pena e sui diritti e la dignità della persona”. Una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, “che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo, arrendendosi all'obbiettiva constatazione della complessità del problema e della lunghezza dei tempi necessari per l'apprestamento di soluzioni strutturali e gestionali idonee. C'è un'emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata senza trascurare i rimedi già prospettati e in parte messi in atto, ma esaminando ancora con la massima attenzione ogni altro possibile intervento e non escludendo pregiudizialmente nessuna ipotesi che possa rendersi necessaria”.
Sottolinea infine la prepotente urgenza che la questione giustizia e carcere ha assunto, l’incapacità della politica “di produrre scelte coraggiose, coerenti e condivise…scelte che ogni giorno di più si impongono, dinanzi alla gravità dei problemi e delle sfide che ci incalzano…”.
L’allarme e il richiamo non potevano essere più autorevoli. Anche perché sono la denuncia dell’assoluta inerzia di un governo, quello presieduto da Silvio Berlusconi, solerte e sensibile quando si trattava di varare norme e leggi ad personam che gli consentissero di schivare processi e condanne; ma assolutamente indifferente e immobile quando si trattava di risolvere i problemi strutturali.
Qualche mese fa il settimanale “l’Espresso” ha pubblicato una dettagliata inchiesta di Gianluca Di Feo, “Tutti prescritti” . Si raccontava che sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Una sorta di impunità anche per reati gravi, come l’omicidio colposo. Così la giustizia sta soffocando sommersa dai fascicoli, uno scandalo senza fine, al punto che molti procuratori rinunciano ai giudizi. E le cose, per quanto possa sembrare incredibile, sono destinate a peggiorare. Per reati come la corruzione o la truffa, c’è ormai la certezza dell’impunità. Le cifre: nel 2008, 154.665 procedimenti archiviati per prescrizione; nel 2009 altri 143.825. Nel 2010 circa 170mila. Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. Intanto i reati scadono e c’è la quasi certezza di scamparla per corruzione, ricettazione, truffa, omicidio colposo. A Roma e nel Lazio, per esempio, quasi tutti i casi di abusivismo edilizio si spegneranno senza condanna, gli autori sono destinati a farla franca. A Milano, nel 2010 l’accumulo è cresciuto del 45 per cento, significa più di 800 processi l’anno che vanno a farsi benedire. Nel solo Veneto si contano 83mila pratiche abbandonate in una discarica dove marciscono tremila processi l’anno.
Conclusione? Un’amnistia mascherata. Senza una terapia d’urgenza, un numero colossale di crimini resterà impunito. E viene fatto un esempio concreto. Nel tempo che la lettura dell’articolo dell’ “Espresso” richiede sono andati prescritti tre processi. Potrebbe essere il caso della donna di 54 anni morta durante un’operazione all’anca a Reggio Emilia: i familiari hanno speso soldi per costituirsi parte civile e hanno atteso invano per dieci anni, la verità non ci sarà mai. O il più grande scandalo di corruzione della sanità romana, le tangenti elargite da Lady Asl per farsi rimborsare ricoveri inesistenti. O le mazzette intascate per la ricostruzione dell’Irpinia terremotata, la vergogna della prima Repubblica: il processo è finito al macero da poco, 30 anni dopo il sisma. “Nessun colpevole, nessun innocente”, scrive “l’Espresso”. “Tutti prescritti. A pagare è solo la giustizia”. Diciamo meglio: a pagare è il paese, sono i cittadini.
Inchiesta vecchio stile, quando “L’Espresso”, diretto da Arrigo Benedetti, era formato quotidiano e pubblicava inchieste come quelle di Manlio Cancogni: “Capitale corrotta, nazione infetta”. Pensate che qualcuno abbia fiatato? No, dall’allora ministro – ora segretario nominato del PdL – Angelino Alfano neppure un sospiro. E dire che prometteva un giorno sì e l’altro pure di fare finalmente giustizia e sistemare le cose. Lo ripeteva ogni giorno, Alfano: si era in dirittura d’arrivo, era cosa praticamente fatta; nuove carceri erano in costruzione; il consiglio dei Ministri aveva varato la “riforma epocale”: separazione delle carriere del Pubblico Ministero da quella del Giudice, giuria popolare, depenalizzazioni varie… "L'obiettivo della riforma è quello di riportare in perfetto equilibrio i piatti della bilancia della giustizia, adeguando anche la Costituzione alle esigenze di efficienza e modernità di una democrazia compiuta", aveva detto trionfante al settimanale “Panorama”, che gli aveva dedicato la copertina e lo strillo ammiccante: “Farò giustizia”.
Vogliamo provare a farne un bilancio? Settimane fa il segretario della UIL-P enitenziari Eugenio Sarno ha diffuso cifre e dati che costituiscono un affresco da brivido: nelle carceri italiane sono rinchiusi qualcosa come 67mila detenuti (64.081 uomini e 2.848 donne), a fronte di una disponibilità reale di posti detentivi pari a 43.879. Un surplus di 23.050 detenuti in più rispetto alla massima capienza, che determina un indice medio nazionale di affollamento pari al 52,5 per cento. In ben dieci regioni italiane, il tasso di affollamento vari dal 15 per cento al 50 per cento. In nove dal 51 per cento all'80 per cento. L'unica regione italiana che non presenta una situazione di sovraffollamento è il Trentino Alto Adige. Capofila, per sovraffollamento, la Puglia (79,4 per cento), seguita da Marche (71,8 per cento), Calabria (70,6 per cento), Emilia Romagna (69,7 per cento) e Veneto (68,0 per cento).
L'istituto con il più alto tasso di affollamento si conferma quello di Lamezia Terme (186,7 per cento), seguito da Busto Arsizio (152,17 per cento), Brescia Canton Mombello (146,6 per cento), Varese (145,3 per cento) e Mistretta (143,8 per cento). Il 50 per cento (102) delle strutture penitenziaria presenta un affollamento dal 50 per cento all'80 per cento; il 35 per cento (72) un affollamento dal 2 per cento al 49 per cento.
Dal 1 gennaio al 30 giugno del 2011 si sono verificati 34 suicidi in cella. Nello stesso arco temporale in 135 istituti sono stati tentati 532 suicidi, dei quali oltre duecento sventati in extremis dal personale di polizia penitenziaria. Il maggior numero di tentati suicidi si è verificato a Cagliari (28). Seguono Firenze Sollicciano (25), Teramo (19), Roma Rebibbia, San Gimignano e Lecce con 18 tentati suicidi. In 160 istituti si sono verificati 2583 episodi di autolesionismo grave. Il triste primato spetta a Bologna (112), a seguire Firenze Sollicciano (106), Lecce (93), Genova Marassi (77) e Teramo (66). Ad aggravare il quadro complessivo concorrono i 153 episodi di aggressioni in danno di poliziotti penitenziari, che contano 211 persone ferite. Sempre dal 1 gennaio al 30 giugno 2011 in 175 istituti si sono verificate 3392 proteste individuali (scioperi della fame, rifiuto del vitto, rifiuto della terapia). Proteste collettive (battiture, rifiuti del carrello) invece in 126 istituti.
E’ accaduto così che questa estate per la prima volta della Repubblica i dirigenti degli istituti penitenziari e degli uffici dell’esecuzione penale abbiano manifestato a Roma i uffici dell'esecuzione penale esterna per rivendicare il diritto a un contratto che manca da quando nel 2005 è stata varata la riforma della dirigenza penitenziaria, e denunciare la drammatica crisi del sistema carcerario. “Lo Stato italiano, ad ogni livello, continua a trattare le carceri come discariche sociali, dove i direttori degli istituti e chi vi lavora sono abbandonati, al pari dei detenuti, in una voragine che inghiotte tutto, dalla legalità ai diritti umani”. Ed è accaduto che a Ferragosto ventimila persone, e tra loro direttori di carceri, agenti di polizia penitenziaria, personale volontario, detenuti, abbiano effettuato uno sciopero della fame e della sete per un giorno cercando così di richiamare l’attenzione sulla situazione disastrosa di carceri e giustizia.
Una situazione ben “descritta” da un comunicato (naturalmente ignorato) dal sindacato dei direttori penitenziari:
“…La verità di oggi è quella di carceri che assomigliano sempre di più a favelas ingabbiate, dove il personale vive situazioni di grande stress e sempre più si vergogna per le risposte che non riesce a dare alle istanze dei detenuti e dei cittadini sul pieno riconoscimento di diritti fondamentali che esse devono assicurare, quali quello alla salute ed alle cure mediche, ad una adeguata alimentazione, al diritto di ricevere una branda per la notte, a quello di poter utilizzare in modo ordinario docce, gabinetti, lavandini, di poter avere ambienti sufficientemente illuminati, pareti periodicamente tinteggiate e non solo lordate da umori umani, sporcizie o altro, che rappresentano i graffiti della disperazione, così come di poter essere, seppure minimamente, garantiti da eventuali rischi d’incendio, di malattie infettive, etc. Costretti ad esprimere, ancora una volta, indignazione e rabbia per come passi in silenzio tutto ciò, noi Direttori Penitenziari, davvero preoccupati che il tempo delle barbarie verso il quale corriamo seppellisca le spinte legalitarie e riformiste che speravamo dovessero divenire gli strumenti principali per avviare, in modo progressivo e veloce, un concreto miglioramento del sistema carcerario, nonché favorire la formazione di una coscienza più forte e comune in materia di diritti umani e sistema penale, siamo ancora una volta pronti alla mobilitazione per denunciare tutto ciò. Non intendiamo, infatti, sottrarci alle nostre responsabilità etiche che sono, come maggior sindacato dei direttori e dirigenti penitenziari, quelle di sostenere ogni seria iniziativa di sensibilizzazione finalizzata a riportare l’attenzione delle istituzioni e dei cittadini sul sistema carcerario. A tal riguardo, non possiamo non essere grati alla benemerita azione di quanti, come Marco Pannella, si impegnino su questo fronte scomodo e di tutta quella miriade di realtà associative, laiche e non, che continuano incessantemente a ricordare la gravità di una situazione che potrebbe da un momento all’altro sfuggire di mano, con conseguenze inimmaginabili per la sicurezza degli operatori penitenziari, di quelli di giustizia, della cittadinanza tutta. A quanti si sono dimostrati essere i più seri nostri interlocutori, e che hanno mostrato di comprendere, liberi da pregiudizi ideologici, sicuritari o ipergarantisti, come il problema delle carceri e della giustizia richiedano strategie nuove, rivolgiamo l’invito ad una più forte ed urgente mobilitazione, prima che sia davvero troppo tardi. Come più volte abbiamo ribadito, Noi siamo servitori dello Stato e non complici di illegalità. Se per ricostruire una logica penitenziaria che non sia solo quella della punizione e della deprivazione che nei fatti trasuda da ogni istituto, se per restituire alla pena il suo valore rieducativo, se per abbattere il rischio di una impennata dei suicidi di persone detenute così come quelle di operatori penitenziari, se per davvero e subito si vogliono recuperare risorse economiche per destinarle al sistema penitenziario, al rafforzamento dei suoi organici della dirigenza penitenziaria, dei ruoli tecnici e delle aree educative, del personale della polizia penitenziaria, se per fare tutto ciò si dovesse ricorrere, da parte di un Parlamento che torni in se stesso, ad uno strumento delicato quale risulti essere quello dell’amnistia, Noi direttori non ne saremmo scandalizzati o indignati: ci indigna invece ciò che ogni giorno siamo costretti a vedere e subire”.
Nel frattempo, per restare sulla “notizia”, in poche ore si registrano due nuovi suicidi in cella. Il primo nel carcere napoletano di Poggioreale; l’altro nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia.
A Poggioreale a suicidarsi, con dei brandelli della coperta in dotazione, è stato R.G., 50enne originario di Napoli, arrestato per tentato omicidio. A Reggio Emilia a suicidarsi un pluriomicida che si è impiccato al rientro in cella dopo aver effettuato un colloquio con i propri cari.
Sale quindi a 58 il totale dei suicidi in cella in questo 2011.
A questo punto vogliamo provare a tirare le somme e tracciare un bilancio del governo Berlusconi per quel che riguarda le possibili soluzioni strutturali in materia di giustizia? Facile, semplice: prendete zero, sommatelo a zero, e a questa somma aggiungete zero…
Che fare? Marco Pannella, e con lui molte associazioni del volontariato, le Camere Penali, propongono un’amnistia: per decongestionare la situazione delle carceri, e “liberare” le scrivanie dei magistrati di migliaia di fascicoli comunque destinati a “morire” per prescrizione, per consentire loro di potersi dedicare ai processi più gravi e urgenti: in sostanza, il ragionamento è: meglio un’amnistia mirata e “governata” della una quotidiana amnistia indiscriminata che si chiama prescrizione. Una soluzione non da tutti condivisa anche se tutti sono concordi nel ritenere insopportabile e intollerabile la situazione esistente nelle carceri e nei tribunali. Ma se non l’amnistia, cosa?
C’è poi il problema di ripetere che torni a verificarsi quanto accaduto. Le misure preliminari per evitare che accada sono tre:
a) abrogazione della legge Bossi-Fini che rende punibile l’extracomunitario clandestino in quanto tale;
b) abrogazione della legge Fini-Giovanardi, che non serve a perseguire i grandi spacciatori di droga, ma sovente punisce il “pesce piccolo” consumatore;
c) possibilità di scontare la pena per reati di non grave pericolosità sociale in altre forme che non siano il carcere.
Tre condizioni preliminari che, se adottate, decongestionerebbero notevolmente carceri e tribunali. Pensate: in una zona ad alta densità mafiosa come Agrigento, il locale tribunale è letteralmente intasato dai processi agli extracomunitari clandestini. E’ evidente che in tutto ciò c’è una logica. Ma è giunto il tempo di dire basta, di smettere di accettarla e subirla.