Articolo 21 - IDEE IN MOVIMENTO
Quirinale tradito
di Federico Orlando
Oggi finalmente il consiglio dei ministri nominerà i sottosegretari. Nel frattempo, fra sorpresa, amarezza, irritazione del “partito della fretta” per la lunghezza dell’attesa, e dei cittadini per la riemersione di inganni, doppiezze, furbate, mercanteggiamenti di cui i partiti della democrazia repubblicana sono maestri da settant’anni, è svaporato il clima gioioso che aveva accolto la decisione del Quirinale di por fine a un governo diventato non governo; e di dare al paese un’ altra guida, che gli restituisse fiducia e lo confortasse nella predisposizione di mettersi sulla via dei sacrifici. Più che alla protesta antipartitocratica dell’Hotel Raphael, la manifestazione di Piazza del Quirinale per la fine del non-governo aveva ricalcato una scena rimasta vuota dal 25 luglio 1943: quando il popolo vi manifestò la sua esultanza per la fine del fascismo e per la sperata pace. Più che deprecazione per il governo sconfitto, si sentiva nell’esultanza popolare attorno al capo dello stato la ritrovata fiducia nella Costituzione, fondamentale patto dei cittadini fra di loro e con lo stato.
Quell’esultanza s’è sfrangiata nel giro di due settimane, com’era accaduto nell’estate del ‘43. Allora era stata la guerra, anzi la sua continuazione, a togliere entusiasmo alle generose illusioni. Stavolta è stata la sedicente costituzione materiale. Anche questa, come la guerra, continua. Una guerra civile tra due costituzioni: quella vera (scritta e vigente), alla quale Napolitano si è appellato per esercitare alla lettera i poteri conferitigli, usurpati a lungo dalla partitocrazia e infine dal regime berlusconiano-bossista; e quella falsificata dai politici, che come ogni moneta cattiva scaccia la buona, e ha consentito per molti lustri il formarsi ad libitum di potentati contro legge e operanti fuori legge. La costituzione vera ha dato a Monti il potere di formare un governo e di chiederne l’avallo alla sovranità popolare in parlamento; la costituzione falsa ha tentato di azzoppare Monti e il suo governo, consentendo ai partitocrati di mettergli fra i piedi bastoni più duri di quelli della Merkel e di Sarkozy. Questa è la condizione del nostro paese, dove il potere è stato fatto in pezzi (vedi Il Potere in Italia di Lucia Annunziata) e dove ogni pezzo di potere agisce in proprio, distruggendo ogni idea di organicità nel cittadino. Specie se questi, com’era accaduto quindici giorni fa davanti al Quirinale, dà segni di non aver smarrita quell’idea e anzi, come un naufrago, di volervisi riaggrappare.
Contro il miracolismo delle bacchette magiche alla Sarkozy, il presidente Monti chiede che la serietà sia valutata più importante della fretta. Ma sa che i partiti gli hanno oscurato la luna di miele che addolciva la serietà e ampliava il consenso, costruito dal capo dello stato attraverso la stessa procedura di formazione della leadership. E sa anche che la rarefazione di quel clima gli toglie forza in Europa e nei mercati, oltre che nel paese. In Europa, dove le lungaggini della partitocrazia italiana vengono già scambiate per “nebbia sul programma di Monti”. Nei mercati, dove tutto fra brodo per farci slittare nell’euro del Sud, tra le penisole oziose della dolce vita. Nel paese, perché, riducendosi la fiducia nel governo, si riduce anche la disponibilità a sopportare i sacrifici che il governo deve chiederci. Cresce così la minaccia sull’esito del tentativo di Monti, già disperato in partenza.
Ed ecco che domenica l’ex premier dimissionato, come 78 anni fa dopo l’operazione dei paracadutisti tedeschi sul Gran Sasso, ci annuncia da un convegno giovanardesco usato come Radio Monaco, che torna in campo “per il bene dell’Italia” e “per salvare il paese dai comunisti”. Le bubbole di sempre. Ma abbiamo visto quanto possano nuocere.
Riavremo anche l’Italia divisa in due? Per quindici giorni abbiamo nutrito la speranza di poterci risparmiare questa coda del dramma. Ma la paralisi dei sottosegretari, le insolenze straniere a far presto, il ritorno del duce defenestrato, diffondevano nei giorni scorsi un'aria da autunno 1943. Un costituzionalista che sul Corriere della sera la fa facile magari per tenerci un po’ su, Michele Ainis, scriveva domenica : “Ci vuol poco a mettere rimedio al male” (delle due costituzioni in guerra). Prima cosa, Monti adotti nel decidere maggiore trasparenza, che è sempre un valore costituzionale ma anche obbligatorio per un governo non eletto dal popolo, che affida la sua legittimità alla chiarezza con cui matura i suoi provvedimenti. Niente tunnel, per favore. Secondo, applichi il principio di responsabilità: le scelte non debbono essere dei padrini, ma del governo che le fa, del parlamento che le discute e magari le corregge e le approva. Così potremmo anche rincollare con abbondanti dosi di attakc quei pezzi del potere che, dicevamo, ciascuno oggi esercita nel proprio feudo. E chissà che non si arrivi a debellarli. Se non tutti, parecchi.
Quell’esultanza s’è sfrangiata nel giro di due settimane, com’era accaduto nell’estate del ‘43. Allora era stata la guerra, anzi la sua continuazione, a togliere entusiasmo alle generose illusioni. Stavolta è stata la sedicente costituzione materiale. Anche questa, come la guerra, continua. Una guerra civile tra due costituzioni: quella vera (scritta e vigente), alla quale Napolitano si è appellato per esercitare alla lettera i poteri conferitigli, usurpati a lungo dalla partitocrazia e infine dal regime berlusconiano-bossista; e quella falsificata dai politici, che come ogni moneta cattiva scaccia la buona, e ha consentito per molti lustri il formarsi ad libitum di potentati contro legge e operanti fuori legge. La costituzione vera ha dato a Monti il potere di formare un governo e di chiederne l’avallo alla sovranità popolare in parlamento; la costituzione falsa ha tentato di azzoppare Monti e il suo governo, consentendo ai partitocrati di mettergli fra i piedi bastoni più duri di quelli della Merkel e di Sarkozy. Questa è la condizione del nostro paese, dove il potere è stato fatto in pezzi (vedi Il Potere in Italia di Lucia Annunziata) e dove ogni pezzo di potere agisce in proprio, distruggendo ogni idea di organicità nel cittadino. Specie se questi, com’era accaduto quindici giorni fa davanti al Quirinale, dà segni di non aver smarrita quell’idea e anzi, come un naufrago, di volervisi riaggrappare.
Contro il miracolismo delle bacchette magiche alla Sarkozy, il presidente Monti chiede che la serietà sia valutata più importante della fretta. Ma sa che i partiti gli hanno oscurato la luna di miele che addolciva la serietà e ampliava il consenso, costruito dal capo dello stato attraverso la stessa procedura di formazione della leadership. E sa anche che la rarefazione di quel clima gli toglie forza in Europa e nei mercati, oltre che nel paese. In Europa, dove le lungaggini della partitocrazia italiana vengono già scambiate per “nebbia sul programma di Monti”. Nei mercati, dove tutto fra brodo per farci slittare nell’euro del Sud, tra le penisole oziose della dolce vita. Nel paese, perché, riducendosi la fiducia nel governo, si riduce anche la disponibilità a sopportare i sacrifici che il governo deve chiederci. Cresce così la minaccia sull’esito del tentativo di Monti, già disperato in partenza.
Ed ecco che domenica l’ex premier dimissionato, come 78 anni fa dopo l’operazione dei paracadutisti tedeschi sul Gran Sasso, ci annuncia da un convegno giovanardesco usato come Radio Monaco, che torna in campo “per il bene dell’Italia” e “per salvare il paese dai comunisti”. Le bubbole di sempre. Ma abbiamo visto quanto possano nuocere.
Riavremo anche l’Italia divisa in due? Per quindici giorni abbiamo nutrito la speranza di poterci risparmiare questa coda del dramma. Ma la paralisi dei sottosegretari, le insolenze straniere a far presto, il ritorno del duce defenestrato, diffondevano nei giorni scorsi un'aria da autunno 1943. Un costituzionalista che sul Corriere della sera la fa facile magari per tenerci un po’ su, Michele Ainis, scriveva domenica : “Ci vuol poco a mettere rimedio al male” (delle due costituzioni in guerra). Prima cosa, Monti adotti nel decidere maggiore trasparenza, che è sempre un valore costituzionale ma anche obbligatorio per un governo non eletto dal popolo, che affida la sua legittimità alla chiarezza con cui matura i suoi provvedimenti. Niente tunnel, per favore. Secondo, applichi il principio di responsabilità: le scelte non debbono essere dei padrini, ma del governo che le fa, del parlamento che le discute e magari le corregge e le approva. Così potremmo anche rincollare con abbondanti dosi di attakc quei pezzi del potere che, dicevamo, ciascuno oggi esercita nel proprio feudo. E chissà che non si arrivi a debellarli. Se non tutti, parecchi.
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