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Articolo 21 - ESTERI
La Germania post-europeista
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di Massimo Faggioli*

La Germania post-europeista Ad oltre vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dei regimi comunisti in Europa orientale e la riunificazione tedesca, l’Europa inizia a vedere e a temere la fine della spinta propulsiva dell’europeismo della Germania, il paese all’origine di gran parte del progetto europeo. Non si contano le accuse di “egoismo” rivolte alla Germania da altri paesi dell’Unione europea; dalle sponde americane si vede una Germania che, come ha sentenziato di recente Foreign Policy, «non è più schiava della contrizione dell’era postbellica».
Angela Merkel sembra invece contare su stimoli esterni per la politica europea della Germania, della quale molti denunciano la mancanza. Uno di questi agenti esterni è la Corte di Karlsruhe: è dal 2009 almeno che la politica tedesca e il cancelliere Merkel si sentono sotto tutela dei giudici costituzionali e attendono dalla Corte di sapere i confini di tollerabilità della politica europea della Germania da parte di un Grundgesetz plasmato nel 1949 come “Costituzione provvisoria”.
Un’altra di queste forze di supplemento per l’europeismo tedesco è il potere della sua intellettualità, e in particolare dei suoi Querdenker – “pensatori trasversali”.
Nel corso dei mesi passati, due ultraottantenni, testimoni della storia tedesca ed europea, e tra gli intellettuali pubblici più importanti, hanno pubblicato succinti ma densi saggi sullo stato del progetto europeo, entrambi per l’editore Suhrkamp: Hans Magnus Enzensberger, Sanftes Monster Brüssel oder Die Entmündigung Europas (Il mostro gentile di Bruxelles o l’impotenza dell’Europa, 68 pp.) e Jürgen Habermas, Zur Verfassung Europas. Ein Essay (Sulla Costituzione dell’Europa. Un saggio, 129 pp.). Il libretto di Enzensberger, poeta, scrittore e intellettuale eclettico come pochi altri (di grande successo il suo Il Mago dei numeri, una guida per superare la paura della matematica) affronta i mali dell’europeismo contemporaneo a partire da aspetti apparentemente secondari, come le regole della comunicazione degli organismi dell’Unione europea e lo spirito di corpo e l’isolamento della burocrazia europea.
Gli ultimi capitoli sono più essenziali rispetto al dibattito attuale, e si concentrano sul dominio dell’economia (“It’s the economy, stupid!”) e la capitolazione dell’europeismo rispetto ai temi economici, e sul rischio di una «era post-democratica» suggellata dalle istituzioni dell’Unione europea.
Per Enzensberger il rischio è che il “TINA” (acronimo di “there is no alternative”) diventi la «capitolazione definitiva» della politica rispetto all’economia.

In termini storicamente comprensibili tanto al pubblico tedesco quanto a quello italiano, Enzensberger vede nello sviluppo recente dell’Europa una specie di «regime giuseppinista» retto da una burocrazia di tipo austro-ungarico, sintomo di una sempre più ridotta legittimazione democratica delle istituzioni. «Come se le lotte costituzionali dei secoli XIX e XX non fossero mai avvenute», siamo tornati ad un’epoca pre-costituzionale caratterizzata da un’impotenza politica dei cittadini europei, in cui anche il principio “no taxation without representation” ormai non vale più per l’Unione europea. Enzensberger nota, citando il contemporaneo e amico di Michel de Montaigne, Étienne de La Boétie, come i cittadini europei corrano il rischio di diventare «servi volontari» di un’Unione europea in cui il meccanismo del controllo dal centro non avviene più tramite «ordini» (come nelle dittature novecentesche) ma per «via procedurale» (come è tipico delle burocrazie).

Non meno preoccupato, ma più denso e più ottimista è il libro di Habermas, filosofo della Scuola di Francoforte, più noto nell’ultimo decennio per il suo dialogo con Joseph Ratzinger sul ruolo della religione nella società contemporanea.
Habermas vede nell’Unione europea dell’ultimo periodo un cambiamento della natura della democrazia sotto la pressione della crisi economica e finanziaria: un «colpo di stato tecnocratico» che ha spostato la sovranità dai popoli europei alle istituzioni europee sempre meno legittimate democraticamente. Il rischio che l’Europa unita corre è quello di inaugurare un’era post-democratica, con un parlamento europeo emarginato (nonostante le riforme del Trattato di Lisbona) rispetto al Consiglio europeo e alla burocrazia europea, e con i cittadini europei ridotti a spettatori. Quello che Habermas propone è unVerfassungbildungsprozess, un “processo di costruzione di una Costituzione materiale europea”: un processo reso difficile dal fatto che quello che all’interno dei singoli stati membri appare un orientamento al bene comune e all’interesse generale, nell’ambito europeo si presenta come un interesse particolare. La nota di ottimismo che viene da Habermas è nel rigetto dell’idea che non esiste un «popolo europeo»: in realtà, afferma Habermas ricorrendo agli studi di Norbert Elias sui processi di civilizzazione, «a fronte della frammentazione politica in Europa e nel mondo vi è una crescita di una società mondiale multiculturale; è la frammentazione politica che blocca il progresso della civilizzazione giuridica dei rapporti di forza tra i poteri».

Habermas fornisce una chiave d’interpretazione possibile alla crisi dell’europeismo contemporaneo, diversa sia da quella dei nostalgici della sovranità dello stato-nazione sia da quella dei romantici degli “Stati Uniti d’Europa”. Il vero nemico comune ad entrambi è il «federalismo burocratico-esecutivo» che mina alla base ogni possibilità di solidarietà tra i cittadini europei.
Il Trattato di Lisbona è un passo verso la «trans-nazionalizzazione della democrazia» in Europa, che storicamente ha avuto finora un percorso diverso da quello della creazione dello Stato federale negli Stati Uniti alla fine del secolo XVIII, tra 1787 e 1788 col dibattito tra federalisti e antifederalisti: un dibattito pubblico paragonabile a quello americano non si è avuto in Europa.
Quello che è chiaro a tutti, per il filosofo francofortese, è l’effetto di svelamento avuto dalla crisi finanziaria scoppiata nel 2008 di fronte ai fallimenti dell’economicismo delle politiche dell’era Thatcher e Reagan ispirate dal pensiero neo-liberale. Ma l’ultimo capitolo del libro è riservato all’europeismo tedesco: in un momento di «riscoperta dello stato-nazione tedesco» da parte delle generazioni più giovani, alla Germania si impone una riscoperta anche della propria vocazione europeista: «Adenauer lasciò alla Germania l’allineamento all’Occidente, Brandtla Ostpolitik, Schmidt l’apertura all’economia mondiale, e Kohl la riunificazione tedesca. Ma dal2005 in poi i contorni dell’europeismo tedesco si sono completamente liquefatti». Habermas aggiunge il proprio nome alla lista di coloro che ricordano ad Angela Merkel il dovere di individuare un’eredità storica da lasciare, come cancelliere tedesco, all’Europa.
*tratto da www.ilmondodiannibale.it

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