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Bocca: un'altra Italia e' possibile
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di Federico Orlando

Bocca: un'altra Italia e' possibile

Se ne sono andati in dieci anni, 2001-2011, i tre più grandi lottatori di un'altra Italia nella seconda metà del Novecento, Indro Montanelli per primo, poi Enzo Biagi nel 2007 (e con lui Claudio Rinaldi, direttore dell'Espresso giovane e sulla sedia a rotelle), ora Giorgio Bocca, insoddisfatto bastian contrario fino in fondo: lui muore il giorno in cui si nasce, a Natale. Da buon “antitaliano”, infatti, non accettava compromessi: laico è stato per novantun'anni e laico, anche troppo, nell'ultima ora; a differenza dell' ”arcitaliano” Curzio Malaparte, che nel primo mezzo secolo di collusioni ne aveva fatte tante durante e dopo il fascismo, così da trovarsi attorno al letto una torma di avvoltoi d'ogni credo e colore, ciascuno anelante a una dantesca “lacrimetta” per affiggerlo nella galleria dei suoi santini. “Mi spìano l'anima”, confidò morente a noi ragazzi nella clinica Sanatrix di Roma, affascinati dal sua Peste, che ci aveva svelato quanta sifilide fosse penetrata in noi, per contagio di fascismo guerra e fame.

Bocca no. Cuneese, è morto da vecchissimo alpino, bruciato nella solitudine dei ghiacciai, come il toscano Montanelli in una società milanese che lo aveva idolatrato per 50 anni e poi abbandonato per il nuovo innamoramento berlusconiano. Ma questo è il punto d'arrivo: quello che esaspera la lunga ira (tranne Claudio, sono tutti morti intorno ai 90 anni) era l'immutabiltà della scomunica lanciata da Gobetti, Amendola, prima ancora che nascesse la dittatura: “Quest'Italia non ci piace”. Si potrebbero scolpire queste parole sul frontespizio della Spoon River del giornalisti combattenti. Tutti accomunati dalla mortale piaga di una patria amata e odiata. Ma mi viene concesso dai colleghi di incominciare questo breve ricordo di Bocca non da quello che tutti i giornali oggi diranno nel primo rigo, resistenza e guerra partigiana; ma dalla mia conoscenza con lui, quando di anni ne avevo 30 e lui quasi 40. Allora la disponibilità a lavorare era assoluta, piemontese o molisano ti buttavi su qualsiasi cosa ti si offrisse, per continuare nei fogli di carta o in tv la guerra di civiltà cominciata da adolescenti o giovani sulle montagne. Lui, socialista, sulla piemontese Gazzetta del Popolo fondata da Cavour, io liberale sul romano Giornale d'Italia, fondato dai liberali monarchici di Sonnino nel 1900: Bocca girava il coltello nelle piaghe politiche e sociali dell'Italia una ma incompiuta, io nel Mezzogiorno unito ma non unificato.

 Un giorno fummo invitati a Firenze, l'uno all'insaputa dell'altro, da Giovanni Grazzini, segretario del direttore della Nazione, Alfio Russo, che ci prospettò il rilancio della casa editrice Vallecchi: realizzare in due anni, 38 profili delle professioni ani dei professionisti che stavano cambiando economia e costumi del paese. Era il 1959, il “miracolo economico” durava. In otto fummo chiamati per il primo blocco, a me spettò L'Agricoltore, coerente col mio meridionalismo e col Giornale d'Italia; a Giorgio Bocca... I ballerini. Che c'entravano i ballerini con le montagne, la guerra partigiana, le inchieste sociali con le quali stava smascherando 'altra faccia del miracolo? Niente. Solo che non c'erano limiti alla nostra spasmodica curiosità di conoscere fin le latebre del paese in cui malmostosamente e patriotticamente vivevamo. E poi, non erano tempi da fare gli schizzinosi, men che meno sul lavoro. “Abbiamo fame”, è il cartello agitato da una folla di uomini e donne, che apre le prime pagine del libro La scoperta dell'Italia (Laterza), in cui Bocca raccolse nel 1963, rielaborandoli, decine di articoli ch' era andato scrivendo sulla Gazzetta, poi sul Giorno, il primo giornale non di partito chiamato a parlare il linguaggio degli ultimi. “Abbiamo fame”. E questa didascalia: “Negli anni del boom, l'Italia che conta ha rifiutato queste fotografie: nell'Italia del benessere non c'era più posto per la fame e per la miseria”. Il socialismo democratico di Bocca e (si licet parva...) il mio liberalismo contadino marciavano separati e colpivano insieme.

Un giorno lo stesso Bocca ne accennò in una pagina che riecheggiava una mia, poi le strade e i caratteri ci separarono. Ma separati erano soprattutto loro, i maestri: si citavano, si prodigavano ognuno secondo il suo temperamento, toscano, bolognese, piemontese, romano, con poche concessioni l'uno all'altro:  perfino nell'ultima battaglia, quella sul berlusconismo incombente, Montanelli oppose l'intransigenza, che gli costò la perdita del Giornale e l'asfissia per sanzioni economica della Voce; Biagi fece in Rai un'opposizione dapprima più diluita, alla fine fu colpito dall'editto bulgaro. Tornarono a tempo pieno al generoso Corriere di Mieli e di de Bortoli; mentre Bocca, da vent'anni era assestato come il vecchio partigiano nella montagna di Repubblica, che aveva lanciato con Eugenio Scalfari, e che presidia come l'Inghilterra di Churchill le terre della libertà. Continuava a combattere da quelle pagine e sull'Espresso, dove assumeva definitivamente l'uniforme dell'Antitaliano. Se l'Italia si riconosce in Berlusconi, gli italiani alla Bocca, alla Biagi, alla Montanelli, alla Rinaldi non possono riconoscersi nell'Italia: in questa Italia, consacrando la vita a prepararne un'altra.

Nei miei anni milanesi, quando Montanelli assunse contro la scesa in campo di Arcore lo stesso ruolo di oppositore e resistente che negli Settanta aveva avuto contro il terrorismo e la contestazione, fondando il Giornale, le occasioni di incontro con Bocca furono poche: lui non veniva, se non una volta su cinque, alle nostre fagiolate del sabato con Biagi, Rinaldi, Afeltra, “ospiti di Indro” da Elio, a Fatebenefratelli: difficile anche a tavola conciliare temperamenti scolpiti nella pietra.

Invece ci rivedemmo nel mio ufficio al terzo piano di Gaetano Negri, collegato alla stanza di Montanelli, il pomeriggio dell'8 se il giornale cambiava linea. Il linguaggio di Bocca, ultimo giornalista italiano ad arrivare in via Negri (del resto il direttore Scalfari non amava Montanelli, che giudicava non un oppositore ma un frondista), fu, come al solito, duro, antidiplomatico. Ma il giorno dopo occupò buona mezza pagina di Repubblica. Bocca: “Secondo te, dov'è arrivata la ribalderia che ci troviamo su giornali e televisioni?”. Montanelli: “Noi non foriamo lo schermo, noi abbiamo la debolezza di evitare la scostumatezza. Non sanno che i buoni costumi sono tutto per una società, vengono prima dello Stato e delle leggi...” L’articolo conclude: “Bussano alla porta a vetri, è Silvio. Mi abbraccia: 'Ti vedo sportivo, a presto. E tu, carissimo Indro, non mollare, difendi la tua indipendenza. Sai chi avrò nel mio staff? La Thatcher. Ormai ho deciso, se no questo paese va in rovina'. E' allegro il Berlusconi Silvio, abbronzato, dimagrito. Scompare come un vortice. Lo trovi cambiato? Mi chiedono gli occhi azzurri di Indro. No, rispondono i miei, è sempre lui”. E' passato quasi un ventennio, i lottatori di allora sono quasi tutti morti. Ma Bocca- è l'unica scommessa che vincerei – direbbe ancor oggi, con Monti a Palazzo Chigi, che lui “è sempre lui”, che è necessario continuare a combattere per un'Italia convinta, con Montanelli, che “i buoni costumi sono tutto per una società, vengono prima dello Stato e delle leggi...”

Lui, come Biagi e Montanelli ci ha insegnato cosa significa essere liberi sempre - di Loris Mazzetti / Non ha mai smesso di amare la Costituzione - L'intervista rilasciata ad Articolo21 / Addio al ''Grande Padre'' del giornalismo libero - di Gianni Rossi


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