di Domenico d’Amati
Dalle dichiarazioni di Monti e Fornero, in materia di licenziamenti, emerge la convinzione che l’articolo 18 sia incompatibile con la “flessibilità in uscita”. Questo concetto, se non si vuole farlo diventare, esso sì, un tabù, deve essere preliminarmente definito, per restare sul piano della logica, come i due illustri professori certamente vogliono.
In base alla legge vigente la reintegrazione nel posto di lavoro in forza dell’articolo 18 non può essere disposta dal giudice nel caso che il licenziamento individuale sia determinato da “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. La sanzione della reintegra scatta solo se le ragioni addotte dall’impresa risultano insussistenti. Se poi si tratta di un licenziamento collettivo per crisi economica o ristrutturazione, l’articolo 18 si applica solo ove l’azienda non dia alle organizzazioni sindacali la prescritta informazione preventiva sulle ragioni della riduzione di personale ovvero applichi criteri arbitrari nella scelta dei cosiddetti “esuberi”.
Monti e Fornero dovrebbero spiegare perché la possibilità di licenziare per ragioni organizzative, pienamente consentita dall’articolo 18, non rientri nel concetto di “flessibilità”, che dovrebbe coincidere per l’appunto con la facoltà di ridurre la forza lavoro per oggettive esigenze dell’impresa. Altrimenti dovremmo pensare che per loro la “flessibilità” abbia un significato diverso, ovvero si realizzi concedendo all’imprenditore la facoltà di licenziare senza ragione, “at will”, come prevede la legge americana.
Il modello degli Stati Uniti contrasta però non solo con la nostra legge – e con l’articolo 41 della Costituzione italiana, che tutela la dignità dei lavoratori – ma anche con i trattati europei ed in particolare con la Carta di Nizza che garantisce la protezione contro il licenziamento ingiustificato.
Un’altra affermazione dei nostri governanti deve essere verificata ed è quella dell’effetto deterrente che l’articolo 18 eserciterebbe sugli investimenti di capitali esteri in Italia. Questa norma è in vigore dal 1970. Abbiamo a disposizione i dati di un quarantennio, durante il quale l’economia italiana ha avuto fasi di rapida espansione con l’apporto anche dei capitali esteri, alle cui esigenze peraltro non è detto debbano sacrificarsi anche i valori fondamentali.