di Domenico D'Amati
Il dibattito sull’articolo 18 continua con il consueto pressapochismo.Sul Corriere della Sera del 12 febbraio, si legge che in Italia il licenziamento per motivi economici è consentito solo a livello collettivo attraverso accordi con i sindacati. Questa affermazione deve essere rettificata.
L’accordo con i sindacati non è richiesto né in caso di licenziamento individuale, che è legittimo se determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro, e al regolare funzionamento di essa” né in caso di licenziamento collettivo, attuato “in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività”.
Nel caso di impugnazione di licenziamento individuale il giudice deve limitarsi a controllare che la motivazione risponda alla realtà dei fatti, senza ingerirsi nelle scelte imprenditoriali (Cassazione Sezione Lavoro n. 755 del 19 gennaio 2012).
Ove invece sia in discussione un licenziamento collettivo il giudice dovrà soltanto verificare che l’imprenditore abbia informato compiutamente e tempestivamente il sindacato sulle ragioni del provvedimento ed abbia poi correttamente applicato i prescritti criteri di scelta (Cassazione Sezione Lavoro n. 19233 del 21 settembre 2011).
Il fatto che il sindacato non sia d’accordo su un licenziamento non ha alcun effetto preclusivo. Il consenso sindacale agevola, il dissenso non impedisce. Ne sanno qualcosa i lavoratori della Omsa e di altre aziende che sono stati licenziati per delocalizzazione dell’impianto.
Su Repubblica si attribuisce al presidente del Consiglio l’opinione che gli inconvenienti dell’art. 18 vadano attribuiti ad una giurisprudenza troppo rigida e a tempi di definizione delle cause troppo lunghi. Per porvi rimedio si starebbe pensando ad una “interpretazione ufficiale della norma, meno drastica e con modalità temporali non dilatate”. Anche questa scuola di pensiero è frutto di un esame quanto meno affrettato della realtà.
L’eccessivo rigore dei giudici non trova riscontro nella giurisprudenza, che tiene nella dovuta considerazione le esigenze dell’impresa e si astiene dall’ingerirsi nelle sue scelte discrezionali.
Quanto all’eccessiva lunghezza dei processi, si deve ricordare che dal 1973 è in vigore un’apposita legge che prevede, per le cause di lavoro una durata di circa tre mesi in primo grado e di circa altrettanto in appello.
Che si tratti di una legge concretamente applicabile con buoni risultati è dimostrato dal fatto che in alcuni uffici giudiziari i tempi da essa previsti vengono rispettati o quasi. Non si capisce perché lo stesso non possa avvenire in altri uffici, ove in effetti i tempi si sono dilatati per carenze di organico o per altri inconvenienti organizzativi.
I problemi possono essere risolti con misure amministrative. Tutt’al più, sul piano legislativo si possono perfezionare i meccanismi processuali. Proposte di modifiche legislative dirette all’accelerare le cause di lavoro sono state formulate alcuni anni fa da una commissione ministeriale. Esse sono rimaste nei cassetti di Via Arenula, forse perché la lentezza delle cause di lavoro fa comodo a qualcuno.
Il riferimento alla possibilità di una legge interpretativa che leghi le mani ai giudici “comunisti” è preoccupante per la sua assonanza con i temi cari all’ex premier.
Le questioni non si risolvono limitando l’autonomia del giudice, se si vogliono salvaguardare le nostre istituzioni democratiche.