di Antonio Ferrari*
Solo la borsa di Atene, euforica dopo il voto del parlamento sui nuovi e tremendi sacrifici richiesti (imposti) alla Grecia da Bce, Ue e Fondo monetario, accenna un convinto sorriso dopo mesi di totale depressione. Il resto della popolazione è disorientato, e ormai prevale una rassegnazione quasi fredda, dopo l'esplosione di rabbia dell'altra notte. L'occhio vede una capitale oltraggiata e ferita dalle violenze e una moltitudine di gente scoraggiata. I greci erano allegri, amavano l'ironia e le battute fulminanti, pronunciate a testa alta con contagiosa simpatia. Oggi gli sguardi che incontri sono bassi e mesti. E' come se volessero segnalare in anticipo le privazioni che la società-quella che lavora e paga le tasse- dovrà sopportare chissà per quanto tempo ancora.
Tutti infatti si chiedono se la cura di lacrime e sangue-la quarta o quinta in meno di due anni-basterà, e se gli sforzi saranno premiati o saranno inutili. Gli ottimisti, pochissimi in verità, si limitano a un respiro sollevato: "Ci siamo ancora, siamo qui, il paese è salvo". Salvo per modo di dire perché tutti sanno che gran parte della montagna di denaro che arriverà dalla troika - oltre 130 miliardi di euro- finirà per quasi il 30 per cento alle banche e altrettanto lo inghiottiranno gli interessi sui debiti in scadenza. Il resto? Di sicuro non sarà sufficiente, perché la Grecia è in recessione da tre anni, perché anche questo 2012 avrà un Pil duramente negativo, e perché l'unico spiraglio di speranza dovrebbe arrivare a metà del 2013, con il timido germoglio di una possibile ripresa, o almeno controtendenza. Troppo poco per un paese che non produce, che ha una disoccupazione media di oltre il 20 per cento, e una disoccupazione giovanile che sfiora il 48 per cento. Insomma, uno scenario da brividi.
Brividi moltiplicati dai balbettii di una classe politica e dalla sua rappresentanza parlamentare. Il premier tecnico Lucas Papademos ha annunciato che le elezioni anticipate si terranno probabilmente ad aprile. Errore quasi fatale, perché quanto è accaduto nella notte di domenica 12 febbraio ha segnato lo sconvolgimento della geografica politica nazionale, ridisegnandola quasi nel vuoto. I maggiori partiti sono spaccati, e hanno dovuto espellere dai loro partiti coloro che non hanno votato il pacchetto di sacrifici. Il centro-destra di Nuova democrazia, primo responsabile della grave crisi che ha semidistrutto Atene, è tornato in chiaro vantaggio; il socialista Pasok, che ne ha ereditato il disastro, subisce la punizione degli elettori per le misure draconiane che è stato costretto ad adottare: i sondaggi lo danno in caduta libera, addirittura sotto il 10 per cento; la sinistra massimalista (i comunisti neo stalinisti del KKE) e quella radicale ma assai più moderata di Syriza e soprattutto di Sinistra democratica (dim.ar) sono in crescita. Ma queste tre forze appartengono al fronte del rifiuto, con qualche distinguo. Per esempio il KKE dice: un no alto e forte ai sacrifici, fuori dall'euro, fuori dall'Unione europea, via dal capitalismo. Gli altri, e soprattutto Sinistra democratica, che sta raccogliendo-secondo i sondaggi- molti delusi dal Pasok- sono contro le misure ma sono favorevoli a restare nell'Ue e nell'area euro. E poi, a macchia di leopardo, ci sono coloro che vaneggiano un ritorno alla dracma, senza rendersi conto delle conseguenze.
La realtà è amarissima. Stando così le cose, le prossime elezioni potrebbero offrire solo nuova confusione, cioè l'impossibilità di formare una coalizione in grado di governare. Con il rischio (è già accaduto in passato) di dover nuovamente tornare alle urne. Domanda: ma allora non sarebbe meglio tenersi il premier tecnico Lucas Papademos, e lasciarlo libero di formare un governo con ministri di sua esclusiva scelta?
* Editorialista del Corriere della Sera