di Massimiliano Nespola
Gli avvocati italiani sono quasi 160.000. Ventimila in più di quelli tedeschi, 25.000 più che in Spagna. L’unico dato particolarmente rilevante a livello comparativo è quello della Francia, dove sono intorno ai 30.000. In realtà analizzando la situazione europea è più anomalo il dato francese di quello italiano. Però questo non vuol dire che il problema non esista, sia per l’accesso che per l´esercizio della professione. Il fatto è che l’intero sistema è rimasto invariato, salvo piccoli accorgimenti, dal 1933. Un sistema che negli ultimi decenni ha prodotto un overload di formazione ed accesso alla professione. Un difetto sistemico così marcato richiede di concepire ex novo sia le logiche di accesso che di esercizio della professione. Ne abbiamo parlato con Julian Colabello, praticante avvocato, esponente dei Giovani democratici.
Numero chiuso per l’accesso alla professione forense. Scuole private durante la pratica, obbligatorie e a pagamento. Nuove modalità per l’esame di Stato: lo si può sostenere al massimo 3 volte e fino a 50 anni, senza l’aiuto dei codici commentati. La riforma in discussione cosa vuol cambiare?
La riforma che si sta portando avanti – come ammesso sia da Guido Alpa che da Giuseppe Sileci, Presidente dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati – si ferma solo al livello post laurea. Non c’è invece nessun intervento rispetto alla formazione universitaria. Una serie di interessi forti impedisce di intervenire su questo aspetto. Una riforma vera avrebbe bisogno di un coraggio che oggi non c’è, per cambiare veramente le cose. Per usare una metafora, la crisi dell’attuale avvocatura richiederebbe un intervento che tracci un nuovo corso del fiume. L’attuale riforma invece non fa che costruire una diga ancora più alta.
Così facendo si danneggiano tanti ragazzi meritevoli in modo indiscriminato e su base economica e classista. Al di là dei test di ingresso, che ho sempre ritenuto uno strumento opinabile, come è possibile che non si tengano in nessun conto i tempi di accesso alla professione? Tornando al dato comparativo, in Francia si diventa avvocati a 24 anni, addirittura in Inghilterra a 23, mentre oggi in Italia si vuole proporre che dopo essersi laureati a 24, 25, o anche 26 anni, i ragazzi dovrebbero fare altri due anni di praticantato pagandosi le scuole forensi e senza alcuna possibilità di percepire un reddito. È praticamente una falcidia che forse otterrà gli effetti sperati a breve termine ma che alla lunga produrrà un blocco della mobilità sociale all´interno della professione. Questo non potrà che abbassare il livello qualitativo dei giovani avvocati.
Possibile che nessuno abbia sollevato la questione nelle sedi istituzionali?
Una delle poche norme che il Consiglio nazionale forense aveva proposto e che la Commissione Giustizia del Senato ha bloccato è stata proprio quella sul compenso, previsto in via generica e dopo un anno, per i praticanti. Il senatore Casson aveva chiesto di mantenerla, ma alla fine l’opposizione si è astenuta e il testo è passato in Commissione con i voti favorevoli della maggioranza. In questo senso la nostra battaglia ha anche lo scopo di chiedere a Partito democratico un’opposizione più netta.
L’attuale proposta di riforma sembra voler cancellare anche le liberalizzazioni introdotte da Bersani, reintroducendo ad esempio i minimi tariffari. Anche questo è un motivo della vostra protesta?
Le norme volute da Bersani hanno avuto il pregio di muovere una situazione incancrenita e sono comunque state deviate, eseguite a metà. Ad ogni modo, l’abbattimento completo dei minimi tariffari e l’inserimento senza limiti del patto di quota lite – quello tra la parte e l´avvocato sulla percentuale che verrà pagata al professionista in caso di successo della causa – è avvenuto in un contesto, quello italiano, dove gli studi legali sono per la maggior parte piccoli o medi, a differenza che in America o in Inghilterra. Il problema che si è creato riguarda il rapporto tra avvocati e i grandi soggetti economici: banche e assicurazioni, per esempio. Un avvocato non ha un grande potere contrattuale nei confronti dei grandi poteri economici, a meno che non abbia lui stesso grande potere. Eliminati completamente i minimi tariffari, le parcelle degli avvocati sono state decurtate del 20% da parte di molte banche e assicurazioni. E nessun avvocato si è opposto, perché avrebbe perso un grosso cliente. L’avvocatura, e a maggior ragione i giovani avvocati, hanno dovuto quindi subire il peso contrattuale dei clienti più importanti. In questo senso la reintroduzione dei minimi tariffari potrebbe avere un senso. Ma…
Dica…
…Ma molto meno senso avrebbero se il rapporto non riguardasse grandi imprese o enti pubblici ma singoli imprenditori e consumatori. Qui il mercato dovrebbe essere aperto alla competizione e consentire lo sviluppo di una sana concorrenza anche al ribasso, visto che a parità di potere contrattuale è più difficile che la situazione si sbilanci a favore di una piuttosto che di un’altra parte. Il problema dell’attuale riforma, a mio avviso, è che reintroduce i minimi tariffari tout court. Una norma che simboleggia tutto il disperato slancio di una parte dell’avvocatura che vorrebbe conservare ed ampliare i propri privilegi corporativi.
Perché lo definisce disperato?
Perché molte parti di essa – mio modesto parere – saranno giudicate in contrasto con le normative europee vigenti e ancor di più con quelle che entreranno a breve in vigore. Penso agli interventi che riguarderanno in generale il mercato del lavoro.
Allora non c’è pericolo.
Vedi, il problema non è impedire la riforma. È farne una migliore.
Una riforma migliore è possibile?
Non solo, è necessaria. Ma per essere efficace e duratura deve essere coerente e fondata su principi condivisi. Riprendendo il discorso sui minimi tariffari, se riconosciamo da un lato che il professionista nei confronti delle grandi imprese può essere considerato un soggetto in un certo senso debole, allora bisogna a maggior ragione riconoscere che i neolaureati non hanno nessun peso contrattuale nei confronti degli studi dove svolgono la pratica. In ogni mercato sano ci vogliono regole che favoriscano i soggetti più deboli. Senza regole vince sempre il più forte.
Voi proponete anche il contratto di praticantato.
Esatto. Il praticantato ha caratteristiche eterogenee, è insieme un lavoro ed un periodo di formazione. Ciò non toglie che in entrambi i casi dovrebbe essere certificato da contratto. Sia per una maggior serietà della pratica sia per fornire uno strumento che garantisca le tutele minime al praticante, sia economiche, che previdenziali, che assicurative.
Non si rischia che molti studi legali smettano di prendere praticanti?
Sempre meglio di quello che accade oggi, dove gli studi licenziano le segretarie e le sostituiscono con i praticanti a costo zero. Ripeto, io non credo nel numero chiuso, ma qualsiasi lavoro serio è selettivo. Preferisco perciò pensare ad un sistema in cui vengo preso perché valgo che ad uno in cui vengo scelto perché posso essere sfruttato. Ad ogni modo, nella bozza di legge che vorremmo lanciare come iniziativa popolare prevediamo che tutte le spese degli studi a favore dei praticanti siano fiscalmente detraibili nella loro complessità in quanto considerate contributi alla formazione. In questo modo l’impatto non sarebbe così drammatico. E poi, parliamoci chiaro, se il problema è dare 700-800 euro ad un praticante, vuol dire che c’è una volontà di fondo che mira a spremere il più possibile le nuove generazioni. Inoltre bisognerebbe dare la possibilità ai ragazzi di fare la pratica sia presso gli uffici giudiziari che presso la PA, oltre che presso gli studi legali. In questo modo si migliorerebbe sia la formazione che la tutela dei giovani praticanti. L’Ordine degli Avvocati di Roma ha mosso passi importanti in questo senso.
Insomma, più tutele e tempi di accesso più brevi…
Non solo, anche l’istituzione di borse di studio e finanziamenti per i più meritevoli. In questo il ruolo delle università dovrebbe essere centrale. Garantire continuità tra gli studi universitari e la formazione professionale è imprescindibile, sia per garantire i più deboli ma meritevoli che per fare in modo che il percorso sia più celere e serio. Non si capisce perché non ci siano corsi universitari ad indirizzo forense che consentano di svolgere una parte della pratica già durante l’università. Ad economia si sta sperimentando con successo qualcosa del genere per i commercialisti, perché non cogliere l’occasione per allargare la sperimentazione?
Crede che tutto ciò possa trovare spazio in parlamento come tra gli avvocati?
Penso che il fronte a favore dell’attuale riforma sia molto meno compatto di quanto sembri. Molti riconoscono le criticità dell’attuale disegno di legge. Noi ci siamo mossi per primi in una nuova direzione, ora staremo a vedere cosa succederà.