di Giulio D’Eramo
Nel 2009, mentre la stampa mondiale copriva con generosità di particolari quegli equivoci festini di palazzo Grazioli e quel processo per corruzione del nostro Silvio che non trovano spazio sulla maggior parte dei media italiani, o vengono disinteressatamente reinterpretate da audaci direttori come Minzolini, Londra si è accorta di avere anch’essa qualche problema di libertà di stampa.
Ogni tanto si legge sui giornali di rimborsi milionari in seguito a cause per diffamazione. Tra gli ultimi casi il Guardian che ha dovuto sborsare 1,2 ml di euro al premier sudafricano Jacob Zuma per aver pubblicato un articolo in cui si riportavano un caso di corruzione e uno di stupro da cui Zuma è stato in seguito prosciolto, e l’Economist che ha patteggiato la causa per diffamazione intentatagli dal magnate russo del petrolio Gennady Timchenko, padrone della società svizzera Gunvor.
Ma probabilmente in pochi si accorgono del fatto che e’ quasi sempre un tribunale del Regno Unito il palcoscenico di questi avvenimenti. La faccenda diventa ancora più strana se si vanno a guardare certi casi che hanno avuto meno risonanza internazionale di quelli sopra riportati. Tra i più bizzarri quello dell’eclettico Don King, organizzatore di celebri incontri di box come Ali-Foreman, contro l’avvocato newyorkese Burnstein, colpevole di aver messo su un sito di box un articolo in cui accusava King di averlo offeso con insulti di matrice antisemita. King, cittadino americano, ricorse con successo ai tribunali inglesi per proteggere la sua “reputazione internazionale” dall’accusa di antisemitismo rivoltagli da un altro cittadino americano.
Ancora più stupefacente è il caso di Rachel Ehrenfeld, ricercatrice americana e autrice di un saggio sui finanziamenti ad Al-Qaeda in cui attaccava l’imprenditore saudita Khalid bin Mafouz. Il saggio vendette solo 23 copie in Inghilterra, e malgrado Rachel basasse le sue argomentazioni su delle fonti abbastanza autorevoli come, tra le altre, alcuni documenti ufficiali delle nazioni unite, venne condannata a Londra al pagamento di 20 000 sterline, oltre alle altissime spese legali.
L’impennata delle cause per diffamazione e dei relativi risarcimenti ha due ragioni principali, che risiedono entrambe in una legge troppo sbilanciata a favore del “diffamato” e con un carattere troppo globale (basta che un articolo sul web sia ciccato da un solo indirizzo IP inglese per far sì che il suo contenuto rientri nella giurisdizione d’oltre manica).
Il deterioramento della situazione è talmente evidente da aver portato la California e molti altri stati americani a votare provvedimenti per proteggere i cittadini statunitensi dalle conseguenze economiche delle condanne per diffamazione emesse dai tribunali di Sua Maestà (Rachel Law). Anche l’ONU, in un rapporto del 2008, ha concluso che la legislatura inglese sulla diffamazione non è in accordo con il diritto alla libertà d’espressione sancito dalle dichiarazioni dei diritti dell’uomo, internazionali e della comunità europea. I media inglesi che stanno conducendo la campagna per un cambiamento della legge inglese in materia, puntano il dito in particolare contro alcune assurdità giuridiche su cui sarebbe doveroso intervenire:
1) nelle cause per diffamazione l’imputato è ritenuto colpevole fino a prova contraria, cioè l’accusa non deve portare nessuna prova della presunta falsità delle informazioni riportate dal giornalista.
2) grazie alla parzialità della legge molti studi legali hanno adottato la formula paghi-solo-in-caso-di-vittoria, con la conseguenza che un processo per diffamazione costa in Inghilterra 140 volte di più della media europea (e che quindi molti giornali patteggiano prima dell’inizio del procedimento)*.
3) Londra è diventata nei fatti il tribunale internazionale per i casi di diffamazione. Ci si dovrebbe in questo caso rifare all’articolo 10 della convenzione europea su diritti dell’uomo che riconosce “..il diritto di ricevere o comunicare informazioni e idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”. Nel caso dell’Inghilterra potremmo forse sostituire la prima parte con “il diritto di fare causa per diffamazione”.
I promotori della campagna (Free Speech is not for Sale), due autorevoli riviste inglesi incentrate sulla libertà di stampa, l’Index on Censorship e l’English Pen, propongono di pretendere dall’accusante la prova della falsità delle affermazioni e del danno da queste subito, di istituire un tetto massimo per i risarcimenti e le spese legali, e di richiedere che almeno il 10% della circolazione dell’articolo incriminato sia avvenuta nel Regno Unito. Sono stati spinti all’azione anche dall’idea che con il diffondersi di fenomeni come i commenti dei lettori online sui principali quotidiani internazionali, molti privati cittadini siano vieppiù esposti a doversi difendere da accuse di diffamazione senza avere a disposizione le risorse di un editore o di un giornale, senza che vengano rispettati i loro diritti basilari
L’iniziativa ha già portato alla creazione di un’apposita commissione parlamentare, che nel corso dell’anno ha ascoltato le ragioni dei direttori delle principali testate giornalistiche, sia televisive che della carta stampata. E il ministro Jack Straw ha appena fatto sua una delle proposte chiave degli attivisti, ovvero di mettere un tetto alle spese legali per questo tipo di processi.
Questo ci ricorda quanto le commissioni parlamentari potrebbero avere un ruolo attivo nella difesa degli interessi e dei diritti dei cittadini, invece di mettere paletti al potere della stampa libera (vedi le ultime misure adottate dal CdV). Pensando alla strabiliante qualità dell’informazione televisiva inglese rispetto a quella italiana ci si stupisce ancora una volta di quanto non si stia facendo da noi.
* Centro di Studi Socio-Legali di Oxford.