di Roberta Serdoz
Stefano è morto per disidratazione, Giuseppe per insufficenza respiratoria.
Sono le verità scritte dai medici sulle cause del decesso, medici che in entrambe i casi, sono stati iscritti nel registro degli indagati.
La storia ormai la conosciamo tutti: Stefano Cucchi il 15 ottobre scorso viene fermato con una minima quantità di droga (20 gr di hashish e due di cocaina) a Roma e arrestato per spaccio; Giuseppe Uva, dopo una serata trascorsa a bere nei bar di Varese, viene portato nella caserma dei Carabinieri di Via Saffi perché ubriaco.
Nessuno dei due ne uscirà vivo.
Un attento lettore può rimanere impressionato dalle molte analogie che caratterizzano le due storie ma quello che fa maggiormente paura è che non si è detta la verità. Dobbiamo ringraziare le famiglie delle due vittime per aver trovato il coraggio di denunciare e l’associazione “A buon diritto” che nell’ombra lavora affinchè storie drammatiche come queste non finiscano tra le polverose carte dei tribunali archiviate senza colpevoli.
Andiamo per ordine: Varese 14 giugno 2008 "Mio fratello è stato fermato dai Carabinieri alle 3 di notte - racconta la sorella maggiore, Lucia - Aveva bevuto, era con un amico in via Dandolo e avevano spostato delle transenne. E' stato portato in caserma e al mattino ci hanno chiamato per dirci che era in ospedale, dove è arrivato in ambulanza, seguito da una macchina dei Carabinieri e una della Polizia. Alle 8,45 eravamo in ospedale ma non si sapeva dov'era. Infine ci hanno mandate in psichiatria. Alle 9,10 ci hanno fatte entrare nella sua stanza: dormiva e il medico ci ha detto che gli era stato praticato un tranquillante. Dopo un quarto d'ora tutti erano agitati. Ci hanno detto di andare a fare la cartella all'accettazione e quando siamo tornate, dopo circa mezz'ora, medico e rianimatore ci hanno detto che era morto”.
Dalle tre di notte alla mattina seguente Giuseppe è rimasto in una stanza della caserma dei Carabinieri, poco distante in una zona attigua c’era Alberto Biggiogero, l’amico-testimone che da allora racconta di aver sentito le grida strazianti di Giuseppe per tutta la notte. E’ stato Alberto a chiamare il 118 senza successo, è lui che racconta di avere visto un via vai di poliziotti e carabinieri, almeno dieci dodici persone.
Alberto Biggiogero non è mai stato sentito dalla Procura.
I familiari hanno il sospetto che, prima di finire in ospedale Giuseppe Uva sia stato seviziato e massacrato di botte all'interno della caserma dei carabinieri, le percosse potrebbero avere provocato un'embolia gassosa e se la circostanza venisse confermata, si profilerebbe l’accusa di omicidio preterintenzionale per i militari presenti quella notte.
La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti. Perché? In caserma c’erano almeno dieci persone appartenenti alle forze dell’ordine, “nessuno per rispetto alla divisa e per il giuramento fatto sulla Costituzione si sente in dovere di raccontare la verità?” L’interrogativo se lo pone il presidente di “A buon diritto” Luigi Manconi.
La famiglia dopo un anno e mezzo chiede di riaprire l’inchiesta, la procura risponde che sta lavorando, nulla è concluso scrive, ma le lesioni scoperte e fotografate dalla sorella sul corpo di Uva all’obitorio sono state fatte apparire come un gesto di autolesionismo o per usare le parole del comunicato stampa emesso dai magistrati di “determinismo”.
Lasciatemi insinuare il dubbio. E’ difficile pensare che un uomo di 43 anni decida volontariamente di sbattersi per terra, rovinarsi a sangue la regione sacrale, i testicoli e avere ancora la forza di procurarsi lesioni alla testa e sul resto del corpo!
Gli indumenti che indossava Giuseppe parlano chiaro: macchie rosse sulla zona del pube; tracce ematiche in quella anale e gli slip non sono mai stati ritrovati.
"Nostro fratello stava bene, era sano, non si drogava - raccontano le sorelle - L'unico problema di salute era un 'orticaria che curava con iniezioni di cortisone una volta al mese, praticate all'ospedale. Ne aveva fatta una proprio il giorno prima di morire".
L'udienza preliminare che vedrà alla sbarra i due medici accusati di aver provocato la morte di Giuseppe Uva è stata fissata per il prossimo 9 giugno. I due,uno del pronto soccorso l'altro del reparto psichiatria, sono accusati di omicidio colposo per aver somministrato al 43enne un trattamento sanitario obbligatorio errato.
Quello che è certo, scrive il quotidiano “La provincia di Varese” è che la morte di Giuseppe Uva è avvolta da un fitto mistero. Ogni giorno emergono particolari a dir poco grotteschi. In data 15 giugno 2008 i due carabinieri che bloccarono Uva e l'amico Alberto Biggiogero in piazza Madonnina del Prato stesero una comunicazione di reato indirizzata alla procura della Repubblica. Nel documento, Uva viene accusato di «disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone». Peccato che il 15 giugno l'uomo fosse già deceduto. Più che un tentativo di depistaggio, a prima vista appare come l'ennesima anomalia di un caso costellato da enigmi.
Per concludere: trovare la giustificazione dietro un fatto di corna (Giuseppe potrebbe aver avuto una relazione con la donna di uno dei carabinieri) è grottesco e in un paese civile un atto di tanta violenza dovrebbe essere condannato con fermezza.
Sono molte le analogie con la drammatica vicenda di Stefano Cucchi, più conosciuta perché raccontata dai giornali con maggiore attenzione. Dopo il ricovero al Pertini il giovane romano rifiutava acqua e cibo ma non per ripicca, voleva far rispettare un suo diritto, parlare con un avvocato di sua fiducia.
Sono passati 155 giorni e la verità non è ancora venuta a galla. La denuncia della famiglia è chiara: Stefano è stato ammazzato di botte. Anche qui c’è un testimone che racconta le grida del ragazzo, anche qui sarebbero stati gli agenti della polizia penitenziaria, nella camera di sicurezza sottostante il tribunale di Roma, ad aver compiuto il fatto.
L’ultimo atto è la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale: “Stefano è morto alle 3 del 22 ottobre, due o tre ore prima che il paziente fosse rianimato pertanto anche il rianimatore ha notato rigidità muscolari, sapeva dunque che il paziente era morto da tempo”.
L’esclamazione è d’obbligo: allucinante! Non si è avuta pietà nemmeno dopo il decesso.
I traumi che Cucchi aveva al momento del ricovero secondo i consulenti tecnici della commissione “sono stati probabilmente inferti”, qualcuno ha dunque picchiato il trentunenne romano in tempi ravvicinati alla morte. Quei lividi intorno agli occhi sono stati provocati da “succussione” ovvero scuotimento diretto delle orbite. “le lesioni alla colonna vertebrale sembrano potersi associare ad un trauma recente e sempre ad una lesione traumatica è collegabile la frattura a livello del sacro-coccige” è scritto nella relazione.
L’inchiesta romana va avanti: sono tre gli agenti di polizia penitenziaria indagati per omicidio preterintenzionale e sei i medici dell’ospedale Pertini sui quali grava l’accusa di omicidio colposo.
Molti i punti oscuri che dovranno essere chiariti dall’inchiesta, secondo alcune indiscrezioni che arrivano dalla procura le lesioni di Cucchi sarebbero precedenti all’arresto quindi il lavoro della Commissione porterebbe ad un risultato diametralmente opposto. Anche qui mancano molte risposte: Cha ha picchiato Cucchi?
Perché la famiglia non lo ha potuto vedere? Perché non è stato consentito a Stefano di chiamare un legale di fiducia? Chi è responsabile di non aver disposto un monitoraggio continuo sul paziente viste le sue condizioni critiche?
Le zone d’ombra della nostra democrazia vanno scardinate con fermezza, la battaglia di verità e giustizia delle famiglie Cucchi-Uva appartiene a tutti noi, non possiamo o meglio non dobbiamo girare le spalle solo perché questi atti di illegalità non toccano i nostri affetti. Combattere a fianco di Ilaria Cucchi e Lucia Uva è un dovere da cittadini, senza paura bisogna abbattere quei muri di omertà che rafforzano le violenze e nascondono la realtà.