di Roberta Serdoz
Sarebbe bastato un semplice cucchiaino di zucchero sciolto in un bicchiere di acqua a salvare la vita di Stefano Cucchi. E’ quanto i pubblici ministeri Barba e Loy scrivono nell’atto di fine indagine appena depositato che contesta “le mancate cure” al giovane da parte del primario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dei quattro medici e dei tre infermieri. Le accuse sono precise: favoreggiamento e abbandono di incapace con l’aggravante di averne provocato la morte, abuso di ufficio e falso ideologico. Tredici le persone coinvolte che finiranno sotto processo tra personale medico e paramedico, secondini e un dirigente dell’amministrazione penitenziaria.
Ma ripercorriamo insieme le tappe:
15 ottobre 2009, ore 23,30: Stefano Cucchi viene arrestato per possesso di modesta quantità di sostanze stupefacenti. E’ sano, la mattina era stato in palestra ad allenarsi.
16 ottobre, sotterranei del tribunale di Roma: al processo Cucchi arriva con il volto gonfio e con delle ecchimosi sotto gli occhi.
22 ottobre ore 03,00: Stefano Cucchi muore per disidratazione nel padiglione carcerario dell’ospedale Pertini di Roma; è denutrito, ha il corpo ricoperto di ematomi, fratture e altre lesioni.
La procura avvia un’indagine per omicidio preterintenzionale, la salma del giovane romano viene riesumata per ulteriori accertamenti, il 13 novembre arrivano i primi avvisi di garanzia ai tre agenti della polizia penitenziaria e ai tre medici del Pertini.
Il DAP, dipartimento di amministrazione penitenziaria, dispone un’inchiesta interna e assolve gli agenti; i medici vengono rimossi dalla Asl ma, in seguito alle proteste dei colleghi e dell’ordine dei medici, vengono reintegrati.
Oggi cade l’accusa di omicidio, la posizione degli agenti della penitenziaria si attenua, è vero, ma quella dei medici fa venire la pelle d’oca, rischiano otto anni di carcere.
Hanno abbandonato Stefano, hanno aggiustato la cartella clinica, hanno “orientato” la destinazione in un reparto, quello carcerario, non adatto alle condizioni del paziente e infine hanno mentito sulle “buone condizioni di salute”. Scrivono i pm:“ intenzionalmente gli procuravano un danno ingiusto di rilevante gravità nel ricoverarlo in un centro inidoneo”.
Ma ancora una volta non si riesce a dare una risposta alla domanda: come un ragazzo arrestato in buone condizioni di salute si è ritrovato morto in un letto d’ospedale dopo soli sei giorni? I medici lo avrebbero potuto salvare ma chi lo ha ridotto in quello stato?
E’ quanto si cercherà di capire nel dibattimento. Negli atti depositati qualche altro frammento di verità viene fuori: si riconosce, intanto, che all’origine del decesso c’è stata un’aggressione e forse più d’una; c’è l’ipotesi che “in concorso tra loro alcuni agenti, abusando della loro autorità, spingendo e colpendo con calci Stefano Cucchi, lo facevano cadere in terra causandogli politraumatismo, lesioni e fratture alla IV vertebra sacrale” e perchè si sarebbero così accaniti contro il detenuto? “per farlo desistere dalla richiesta di farmaci e dalle continue lamentele”.
Gli agenti non sopportavano i lamenti di dolore del geometra romano, non volevano sentirlo, dava loro fastidio dunque bisognava punirlo.
La famiglia di Stefano Cucchi non si arrende, la sorella Ilaria parla di ricostruzione “allucinante” di quei momenti. “Ora so che mio fratello è stato ucciso -ha detto- questa cosa è stata chiarita, Stefano è stato letteralmente abbandonato dai medici che si sarebbero dovuti prendere cura di lui” ha aggiunto Ilaria. La sorella e tutta la famiglia di Stefano ora sperano che nei prossimi giorni si faccia chiarezza e si scopra la verità sulle prime ore dopo l’arresto del ragazzo, partendo dal pestaggio potrebbe nuovamente cambiare la posizione degli agenti della penitenziaria che lo tennero in custodia.
Ma bisognerà attendere il processo per avere una risposta alle centinaia di domande che tutti noi ci siamo posti in questi interminabili 200 giorni. Appare chiaro però l’impulso sadico che ha invaso corpo e mente di questi 13 uomini, una violenza gratuita, una cattiveria difficilmente raccontabile forse dettata dalla paura di essere scoperti e additati come torturatori che prima ha fatto marcire, nelle celle di sicurezza del tribunale, un giovane romano arrestato per 20 grammi di hashish e due di cocaina e poi lo ha lasciato morire sapendo che si sarebbe potuto salvare con un semplice bicchiere di acqua e zucchero.