di Silvia Iachetta
L’eliminazione del crocefisso dalle scuole continua ad accendere forti dibattiti e, quasi inspiegabilmente, a coinvolgere la religione islamica. Così com’è successo durante la trasmissione “Domenica5”, su Canale5. A fomentare gli animi, le parole di Daniela Santanchè, leader del Movimento per l'Italia, «Maometto per noi era poligamo e pedofilo», che hanno prontamente trovato la replica di Ali Abu Schwaima, presidente del Centro Islamico di Milano e Lombardia, «Ecco l'ignoranza sua e di tutti quelli come lei, che non hanno altri argomenti per controbattere quel che dico». C’è davvero tanta ignoranza sul tema “Islam”? Abbiamo cercato di capirlo attraverso una lunga conversazione con il professor Alberto Ventura (nella foto), titolare della cattedra di “Storia dei Paesi islamici” presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università della Calabria, partendo proprio dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani.
«L'Islam, una volta tanto, non è direttamente responsabile di questa polemica, che riguarda piuttosto la questione della laicità dello Stato e il rispetto delle coscienze di chi – perché laico o perché appartenente ad altra confessione religiosa – preferirebbe eliminare dai luoghi pubblici evidenti simboli di fede. Da una parte credo che la sentenza della Corte europea dei diritti umani, forse ineccepibile sul piano tecnico, appaia eccessiva se pensiamo alle ben più gravi infrazioni umanitarie cui assistiamo costantemente e che non ricevono altrettanta attenzione; d'altra parte, mi sembra quanto meno debole l'argomento sollevato dal Ministro dell'Istruzione, e cioè che la sentenza europea potrebbe essere dichiarata in contrasto con la nostra Costituzione, che riserva un ruolo privilegiato alla religione cattolica: è infatti proprio questo privilegio che viene messo qui in discussione, e il trincerarsi dietro di esso non mi pare la migliore delle difese possibili. Senza contare, poi, che appare alquanto incoerente fare appello alla Costituzione proprio in un momento in cui essa viene di continuo giudicata obsoleta e si ritiene necessario metterla al passo coi tempi».
Professor Ventura, oggi si tende ad accostare l’Islam, quasi esclusivamente, a un fenomeno di aggressività, di violenza, un fenomeno pericoloso. Come mai?
Quello dell’aggressività è stato spesso uno di quegli stereotipi con i quali l’Occidente ha risposto alla minaccia islamica. Nel panorama così complicato della globalizzazione odierna, l’Islam viene visto come un movimento di resistenza forte all’unificazione planetaria. Essendo l’Islam più debole dal punto di vista economico e politico del mondo occidentale, esplica questa resistenza attraverso armi classiche di chi è più debole, quali il terrorismo, l’agguato ecc. In questo modo si veicola un senso d’insicurezza nei confronti dei musulmani.
Il Governo italiano come sta affrontando la presenza musulmana nel nostro Paese?
Io credo che in Italia non ci sia una volontà unificata, un piano strategico. Lo vediamo anche dalle decisioni politiche che sono sempre molto estemporanee, caso per caso. Ci sono delle aree in cui la presenza musulmana viene vista immediatamente come un’associazione sovversiva, quindi pericolosa. Allora c’è la reazione istintiva della comunità locale, spesso appoggiata dai politici che attualmente sfruttano questo tipo di paure. La raccolta di questi musulmani viene vista come una fonte di possibile minaccia soprattutto nel giorno della preghiera pubblica, durante la quale l’Imam predicatore emette il suo sermone. Questo sermone spesso, soprattutto nell’epoca più vicina a noi, è stato tramutato nella possibilità di veicolare idee rivoluzionarie, tanto da far emergere la necessità di attuare una sorta di “censura”.
Anche in Italia c’è stato un forte dibattito in merito. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha proposto l’uso dell’italiano nei sermoni. Può essere una soluzione?
Nel mondo musulmano si è a lungo discusso se questo sermone debba essere fatto in arabo, che è la lingua canonica dell’Islam, oppure nella lingua locale. In molti casi si è optato per una predica fatta nella lingua locale. In altri Paesi, invece, come India, Pakistan e Bangladesh la soluzione adottata è quella di ridurre il sermone a una serie di lodi del Profeta, della sua famiglia, dei suoi compagni, in formule già standardizzate che non hanno nulla a che vedere con l’attualità politica o sociale. Ma non tutti gli arabi sono d’accordo perché pretendono un sermone libero.
Veniamo alla questione “burqa”, tema altrettanto controverso e che ultimamente ricopre le agende dei media internazionali. Qual è la reale connessione tra questo tipo di vestiario e la religione islamica?
Innanzitutto la religione islamica non prevede norme particolari sul vestiario. Si limita, dal punto di vista religioso, a parlare di decoro, di decenza. E’ anomalo considerare questo tipo di velo come elemento essenziale dell’appartenenza all’Islam. Bisogna poi distinguere tra “burqa”, che è una parola locale, e “velo”, Higiab. Per la stragrande maggioranza dei musulmani “velo” significa la copertura dei capelli, non del volto. Anzi, la legge islamica prescrive che la donna deve avere il volto scoperto. Quindi tutte quelle velature, come il burqa afghano che comportano la chiusura totale del viso, non sono islamiche. In India le donne di buona famiglia hanno delle velette trasparenti appena appoggiate sulla testa, i capelli sono quasi addirittura scoperti. Sono le donne del popolo che magari vanno in giro con il viso totalmente coperto.
Le donne musulmane comunque, indipendentemente dal velo, non godono di molte libertà…
Il problema è complesso. Nei paesi islamici, in effetti, non si può dire che una donna abbia quelle possibilità, quei ruoli, quelle libertà che può avere altrove. Però anche qui la nostra percezione è ingannevole. Innanzitutto bisogna vedere area per area, non possiamo pensare al mondo islamico come un unicum. Anche nel mondo occidentale le abitudini comportamentali sono profondamente diverse da Paese a Paese. E poi, noi italiani non è che possiamo dare lezioni di diritti civili ai paesi islamici, considerando che proprio da noi ci sono delle carenze molto forti. Ricordo che nei primi anni ’90, durante una conferenza pubblica, un musulmano disse: «Accetteremo consigli dall’Italia sul ruolo delle donne quando anche l’Italia avrà il Presidente del Consiglio donna». In quel momento, nei paesi islamici c’erano tre donne alla guida di Nazioni, non come figure meramente ornamentali, ed erano il Presidente del Consiglio turco, il Premier in Pakistan e nel Bangladesh.
Sta dicendo che ci sono degli stereotipi consolidati che non corrispondono alla realtà?
In un certo senso sì. Rimediamo a questi stereotipi per cui solo la donna musulmana è schiavizzata. Ma voi lo sapete che nell’ordinamento italiano fino al 1968 c’era il reato di adulterio femminile? Se la donna commetteva adulterio era reato penale, se lo commetteva l’uomo era reato civile. Inoltre, una cosa che i musulmani non riescono a comprendere, e noi ci guardiamo bene dal rilevare, è che da noi si tollera, fino alla simpatia, l’adulterio maschile, ma non si tollera l’adulterio femminile. Nel mondo musulmano, invece, c’è la massima equiparazione: che lo faccia l’uomo o la donna il reato è tale e quale e l’esecrazione culturale è la stessa. C’è magari qualche caso eccezionale, come in Nigeria, dove la lapidazione per adulterio colpisce la donna. Succede raramente, però fa grande notizia e viene ripresa dai media internazionali.
Il mondo islamico è diviso anche al suo interno. Quanto interessa al mondo Occidentale far cessare questi conflitti?
Il mondo islamico più è diviso, più è controllabile. E’ grave però che il mondo occidentale, consapevolmente, non abbia favorito sviluppi che, invece, ha sempre sostenuto di volere favorire in senso democratico, in senso di sviluppo delle libertà civili. Ogni qual volta un paese islamico si stava indirizzando verso una sua forma di autodeterminazione di democrazia, in genere il mondo occidentale è intervenuto per impedire queste forme e rimettere al potere dinastie o partiti politici non certo molto avanzati dal punto di vista dei diritti umani.
L’informazione come affronta il tema dell'Islam?
Il problema dei mezzi di comunicazione è rappresentato dall'eccesso di semplificazione che il linguaggio mediatico richiede. I giornali e soprattutto la televisione impongono ormai definizioni sommarie, opinioni ingiustificate, approssimazioni grossolane. I motivi di questo degrado sono molteplici, ma un ruolo non indifferente è rappresentato dalle pressioni economiche alle quali questi mezzi sono ormai costretti a sottomettersi: l'audience televisiva – o, per i giornali, le vendite in edicola – sono il segno dello strapotere pubblicitario di oggi, che a tutto mira meno che a un'informazione corretta. Sull'Islam più in particolare, notiamo poi una sostanziale impreparazione di fondo dei giornalisti che, a parte alcune lodevoli eccezioni, si limitano a riproporre una serie di luoghi comuni e di inesattezze piuttosto deprimenti: raramente i nomi di luoghi o persone del mondo islamico vengono trascritti o pronunciati correttamente, gli svarioni storici sono all'ordine del giorno, gli eventi vengono sempre inquadrati in una lettura preconfezionata e semplicistica, gli "esperti" cui viene dato spazio sono il più delle volte di affidabilità molto dubbia. In questi brevi giudizi non ho incluso la radiofonia. In effetti, la radio sembra rappresentare, in questo panorama poco lusinghiero, una sorta di isola felice. Sono frequenti le trasmissioni radiofoniche in cui l'informazione è più corretta e le opinioni hanno modo di esprimersi in maniera più meditata. Insomma, in radio troviamo spesso lo stimolo a comprendere le cose, non a liquidarle in pochi slogan.