di Michele Mezza
Non mi pare una grande idea quella di usare il presente per oscurare i nodi del futuro, come, forzandone il ragionamento, mi pare si possa rischiare seguendo il filo dellâ??articolo di Nino Rizzo Nervo sulla Rai, che ho potuto leggere solo oggi. Credo, anzi, che lâ??azienda di servizio pubblico si trovi nelle peste oggi proprio perché in questi anni si è sempre pensato, ossessivamente allâ??istante in cui si viveva, ignorando che il futuro batteva robustamente alle nostre porte. E sempre si è scelto la soluzione meno traumatica.
Il documento Petruccioli, che stranamente è stato riportato solo sommariamente, e mai in maniera fedele, dalla maggioranza dei cronisti di cose Rai, credo invece che possa rappresentare un contributo utile anche in chiave di soluzioni urgenti per la Rai.Ed è di questo che credo che si debba discutere.
Dico subito che si tratta di un testo ricco di spunti e di soluzioni che a me appaiono largamente condivisibili . A partire dal metodo: il documento infatti mira a dare una base strategica allâ??idea di servizio pubblico, in vista del prossimo rinnovo della convenzione Stato-Rai del 2016. Già lâ??ambizione di ragionare in termini di medio-lungo periodo, in unâ??azienda dove il metro del pensare raramente supera i palinsesti trimestrali, colma un buco atavico per la Rai. A memoria dei viventi, vi sono solo due precedenti analoghi: la riforma del 76 e lâ??avvento dei professori nel 92. In entrambi i casi la politica si confermò più lenta dei processi sociali che aveva sotto gli occhi, e puntualmente che travolsero i contesti immaginati da quei programmatori.
La riforma del 76 non percepì che il monopolio pubblico era già in agonia, almeno mille radio già allagavano il paese di programmi e news, e non per un complotto ma per un processo di prima disintermediazione sociale, che fece poi la fortuna della Tv commerciale ,e successivamente preparato il terreno alla rivoluzione di Internet. I Professori invece cercarono di sfruttare unâ??autonomia dal politico che durò lo spazio di un mattino, senza però intercettare la vera domanda di discontinuità culturale e organizzativa che investiva la Rai del post mani pulite.
Questa volta non possiamo perdere di vista ciò che si muove, pena essere travolti definitivamente. E qui veniamo al secondo elemento fondante del documento che considero estremamente positivo: non esiste servizio pubblico - dice Petruccioli - che non abbia un ruolo leader nel cambiamento. Cambiamento di prodotti, linguaggi, tecnologie. Qui ritrovo un elemento discriminante di molte discussioni , anche allâ??interno di Articolo21, sulla Rai. Pur giurando tutti di non volerla più pedagogica e prudenziale, rimane in molti la tentazione di spremere il limone della potenza comunicativa dellâ??azienda, fino in fondo, per salvaguardare il suo ruolo di persuasore, in chiave ovviamente di sentinella della libertà rispetto al potere, ma pur sempre persuasore sociale. In realtà nellâ??epoca dellâ??abbondanza di comunicazione, dove soluzioni, modelli e flussi comunicativi si intrecciano attorno ad ognuno di noi, la leadership di unâ??impresa televisiva, tanto più se pubblica, non è più quella di distribuire messaggi politically correct, ma di contribuire allâ??aumento do potenza ed autonomia della sua comunità di riferimento nel mercato del sapere e dellâ??innovazione, attraverso una decisa applicazione dei nuovi paradigmi digitali . Eâ?? questo il motivo per cui, come dice giustamente Rizzo Nervo, il governo inglese investe sulla BBC, e il governo francese amplia la gamma degli strumenti nazionali nella multimedialità con una nuova rete All News e un nuovo motore di ricerca in alternativa a Google. Il punto non è quanto dare alla Tv pubblica, ma cosa deve fare la TV per essere utilmente pubblica. Un tema che non risolveremo solo con le elezioni di Aprile. Qui mi pare sta anche la chiave del rapporto fra TV e cultura contenuto nel documento.
Da queste due premesse, lâ??orizzonte strategico e il primato nel nuovo, si dipana il ragionamento di Petruccioli , che mira a ridare una base materiale alla Rai come azienda strategica del paese. Avendo al centro della sua missione il prodotto. â??Essenziale è che la TV servizio pubblico trasmetta, aggiorni e innovi quello che potremmo definire il patrimonio della comunità nella quale si riconoscono le persone, i cittadini ai quali offre i propri prodottiâ? così sintetizza Petruccioli la missione produttiva della Rai. Fissandola in una continua ricerca nel declinare tradizione e modernizzazione, per dare corpo al senso comune del paese. Condivisibile mi sembra anche lâ??indicazione che per fare questo si debba da una parte separare, irreversibilmente, la gestione aziendale dalle contingenze politiche. Imboccando la strada della fondazione di tipo bancario, che personalmente preferisco, rispetto al modello indicato delle istituzioni culturali, quali lâ??Enciclopedia Italiana.In ogni caso si pensa ad una istituzionalizzazione delle fonti di nomina dellâ??organismo supremo , da cui, per meccanismi fortemente aziendali, si debba poi arrivare alle indicazioni delle responsabilità strategiche ( amministratore delegato) e gestionali ( direttore generale ).
Si sistematizza così un percorso rimasto nelle nebbie delle suggestioni , o delle vaghe aspirazioni. E si da allâ??attuale consiglio di amministrazione ( il più politico che si poteva immaginare, conviene Petruccioli) il mandato ad accompagnare questo itinerario di allontanamento dalla politica. Conseguenza di questa separazione è la morte, come mentalità prima ancora che come meccanismo, della tripartizione aziendale. E qui troviamo un punto di resistenza in molti interlocutori di nostre discussioni.Il nuovo scenario multimediale esige offerte integrate, a matrice, complementari ,e non competizioni interne parallele. Lâ??unitarietà dellâ??azienda, nello scenario di diversificazione delle reti, è il presupposto per dare identità e riconoscibilità pubblica ad un prodotto vissuto ancora per appartenenze tribali.
Infine il passaggio dellâ??unitarietà aziendale. Credo che questo possa apparire come il punto più liberatorio per molti di noi. Petruccioli, in modo pacato devo dire e laico, constata che ogni astrusa e artificiosa separazione di rami e tronchi aziendali è ingestibile. Tanto è vero che non esiste esempio analogo in alcuna parte del mondo. E illustra , passando in rassegna varie alternative, lâ??ipotesi di maggior buon senso: unâ??azienda con una cabina di regia unitaria e terminali societari più specializzati, a secondo delle tipologie e delle destinazioni del prodotto, dove dare trasparenza alla vocazione e alla natura delle risorse finanziarie impegnate.
In questa logica si supera ogni stucchevole polemica su cosa vendere: una rete, due reti, etc. Di volta in volta si possono intercettare capitali privati, o esteri, a secondo delle compatibilità dei prodotti. E soprattutto a seconda dei nuovi limiti anti trust che vengono sollecitati ed auspicati. Limiti che devono fortemente investire le reali cause di monopolio, ossia la raccolta pubblicitaria, la capacità trasmissiva e, aggiungo io, il controllo prevalente di singole tipologie di diritti, come ad esempio quelli sportivi. Così si fa spazio ai nuovi, riportando nei limiti della decenza il duopolio nostrano.
Aggiungo, nel mio slancio di entusiasmo che chi mi conosce sa non essere frequente per cose altrui , ne naturalmente predisposto per lâ??attuale vertice aziendale, che il documento contiene unâ??affermazione, oggi perfino banale, ma che in azienda continua ad essere considerata indecifrabile: nel processo di digitalizzazione integrale al quale andiamo incontro, non è più possibile separare produzioni tradizionali o di massa, da quelle destinate ai new media. Più esplicitamente solo in alcuni paesi dellâ??est europeo il digitale è considerato un genere, o una direzione, come in Rai, e le produzioni tradizionali di news o fiction, sono separate dagli adattamenti nei new media, come i portali o i videofonini. Facendo così, come si è iniziato a fare nel 2000 e si continua a tuttâ??oggi, si rendono avvizziti e superati i prodotti tradizionali, poveri e invendibili i servizi dei new media.
In questa logica centrale appare il ruolo dellâ??informazione, considerata lâ??architrave e lo strumento della missione, culturale ed industriale , del servizio pubblico. Unâ??informazione che va segmentata e diversificata, a secondo delle figure, dei contenitori e dei servizi di riferimento. Dove, aggiungo io, si deve, ancora più esplicitamente di quanto non faccia lo stesso Petruccioli, porre la questione di una transizione dellâ??intera linea di produzione informativa, unificata nei segmenti almeno di raccolta e indicizzazione delle fonti, su protocollo IP, acquisendo potenza produttiva e modernità di linguaggio. Come BBC e il gruppo Murdoch stanno facendo.
In questa sottovalutazione del valore del modello produttivo, trovo forse il limite vero del documento. Diciamo un freno concettuale, che rende il documento poco contemporaneo proprio nella sua parte iniziale, le prime 10/12 pagine, quando si cerca di identificare il pensiero forte di un moderno servizio pubblico. Li mi pare che non si voglia compiere il salto concettuale insito nel fatto che il documento è scritto nel cuore del tempo della rete, nel pieno dellâ??estensione di fenomeni come Google o il wireless , che hanno assunto dimensioni di massa. Fenomeni che non possono essere contemplati, ma vanno analizzati, su cui bisogna compromettersi con una previsione e una scelta di valore.
Vi ho trovato, ad esempio, una sottovalutazione delle discontinuità da introdurre appunto nei processi produttivi, in termini di culture, figure professionali, strutture organizzative, concezione del rapporto tempo/spazio. Anche se il riferimento ad un governo intelligente di forme di decentramento e di combinazioni con realtà esterne, lascia intuire la disponibilità ad andare oltre. Mentre mi pare più estranea la considerazioni dei processi sociali, dei comportamenti di tipologie di individui e di utenti,che stanno trasformando i mass media in massa dei personal media. Per un ragionamento che punta a selezionare i tratti distintivi del servizio pubblico radiotelevisivo nel prossimo decennio , non è una lacuna da poco. Diventa infatti difficile afferrare soluzioni immediate e tendenze strategiche se non si comprende e si condivide una visione su cosa è realmente accaduto attorno a noi, tale da rendere, come sta accadendo le aziende di telecomunicazioni i nuovi editori, e i motori di ricerca le nuove infrastrutture del mercato dellâ??audiovisivo. Solo unìanalisi di queste tendenze salvaguarderebbe lâ??eventuale intervento riformatore dal destino di quello del 76, nato già morto. Uno sforzo in questa direzione renderebbe più fondata la scelta di separare i produttori dei contenuti dai fornitori di servizi trasmessivi, darebbe più forza al ruolo di ingeeniering dei contenuti per conto terzi che viene richiamata nel documento come possibile terza gamba del bilancio, e al tempo stesso renderebbe almeno più problematica le fede che traspare nel ruolo della tv generalista come immanente al sistema.Sicuramente si ricaverebbe la necessità ,ancora maggiore ,di un luogo di ricomposizione e di ibridazione delle culture comuni, come è stata la tv generalista, in un mercato che corre verso lâ??individualizzazione dei consumi e la parcellizzazione dei linguaggi- io vedo solo quello che compro e compro solo quello che conosco già . Ma è bene capire cosa sia una necessità oggettiva e distinguerla dalle tendenze reali innestate dal mercato. Il ruolo della politica, di quella buona, è proprio quella di intervenire, per colmare il fossato che separa bisogni sociali da offerte del mercato.
Forse unâ??attenzione maggiore alla radio e alla sua storia, liquidata in poche battute, avrebbe portato più facilmente a leggere il processo di fondo che dagli anni 70 ha investito il mondo dei media. La radio infatti è stata il vero traghetto che ci ha accompagnato dalla sponda della penuria di risorse comunicative a quella dellâ??abbondanza, canalizzando già dagli anni â??70 la domanda di autonomia individuale sia nei consumi che nellâ??ambizione produttiva. Oggi il tornante sociale, prima ancora che tecnologico ,che si para davanti alla radio , il peer to peer, non fa, come sempre ,che anticipare lo scenario che avvolgerà lâ??audiovisivo fra qualche anno. Câ??eâ?? in ogni caso materia per discutere e soprattutto decidere. Anche per il prossimo bilancio.