Articolo 21 - Editoriali
La strage di Tolosa e lâimpossibile oblio
di Maria Cristina Serra
Gli incubi, l’orrore, il male si annidano silenti, sotto traccia, negli anfratti dei cuori di tenebra, per esplodere all’improvviso, travolgendo senza pietà la vita che, fra tante incertezze, si credeva di aver riposto al sicuro. “Ogni uomo nasconde in sé un Demone”, scriveva Fiodor Dostoievski, il grande narratore russo, delle più intense pulsioni dell’animo umano, per il quale il Male rappresentava il filo rosso della vicenda umana: il dolore, il peccato, le colpe, il delitto e il castigo, definivano per lui il carattere tragico dell’esistenza, fino a spingersi, a sostenere la possibilità per l’uomo di rifiutare il bene e di scegliere il male, come estremo presupposto della libertà
Nessun castigo né pena potrà mai essere adeguatamente comminata all’orco nero, esecutore materiale dell’uccisione dei bambini nella scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa, nè ai suoi mandanti ideologici, nutriti della linfa velenosa dell’antisemitismo permanente e dilagante, che come polvere sottile si è sollevata dalle ceneri di Auschwitz e non ha mai più cessato di spargersi per i cieli grigi d’Europa.
Una lunga scia di intolleranza e di odio razziale e religioso, amplificata anche dal WEB, in cui “l’Ebreo” rappresenta il bersaglio ideale da sbeffeggiare e annientare, punto di sintesi e convergenza di tutti i fanatismi, simbolo ideale di “ogni diversità”. Con un crescendo di violenza, dai giorni degli oltraggiosi atti vandalici effettuati da gruppi neonazisti nel 1982 verso i luoghi di culto, scuole e cimiteri ebraici europei, alle black-list online dei “professori servi d’Israele”, alla deriva autoritaria e xenofoba dell’Ungheria. Un cambiamento di clima, un ritorno al “Male” e ad un’organizzazione del “pensiero” sempre più denso di presagi, destinato a non disperdersi e circondato da irresponsabile sottovalutazione.
Se le parole rischiano di diventare troppo anguste per raccontare la realtà del presente, che ha le sue radici e il suo significato nel recente passato, devastante, del XX° Secolo, ancora molto da indagare, è utile riprendere la trama della storia tracciata dal drammaturgo Peter Weiss nella sua “Istruttoria”: “Non sono solo parole, quando si dice che Auschwitz continua ancora dentro e intorno a noi”; proseguendo poi nella riflessione, sfogliando le pagine dei grandi scrittori e pensatori del Novecento che hanno attraversato l’oceano in tempesta del nazismo.
Molti anni prima della filosofa tedesca Hanna Arendt, l’austriaco, di origini ebraiche, Joseph Roth (autore di Giobbe, Marcia Radetzky, Fuga senza fine, Confessioni di un assassino, L’Anticristo) aveva già messo a nudo la “banalità del male”, la sua volgare pochezza contro cui era necessario “combattere restando in trincea contro le belve, per il genere umano”, perché lo scrittore “ha il dovere di mobilitarsi contro l’inumanità del mondo attuale, lo scrittore non ha mai il diritto di reclamare per sé la sua vocazione…il talento, il genio non lo dispensano in alcun modo a combattere contro il male…uno scrittore per esempio che non combatte Hitler e il Terzo Reich”, scriveva nel 1934, “è chiaramente un cattivo scrittore”.
La sua “trincea” fu Parigi dal 1933 al ’39; il suo rifugio il caffè “Le Tournon” alle spalle dei giardini del Luxemburg, dove con la magia della sua penna riusciva a superare i confini culturali, religiosi e politici di un’Europa caduta nell’abisso, distante ormai da quella utopica, che aveva sognato, liberata dalle ideologie e unita dai principi dell’universalismo cosmopolita, ma schiacciata tra una guerra mondiale vissuta di persona e un’altra che si preannunciava. “Un continente triste e ormai prossimo alla morte”, così appariva nei suoi reportage scritti per i giornali tedeschi, alla fine degli anni Venti, che suonano ancora attualissimi. Con lucida preveggenza seppe leggere nelle contraddizioni e nei tormenti della sua epoca quei germi di violenza, di nazionalismo esasperato e di indifferenza alla cultura e ai valori di legalità, che portarono poi al nazifascismo e alla Seconda guerra mondiale. Roth è la personificazione iconografica dell’“ebreo errante”, come lo sono tanti protagonisti dei suoi libri, dalla vita in fuga e perdente, mai vissuta al presente. Gran bevitore, senza fissa dimora, privo di sostentamento (i beni gli erano stati confiscati dal regime), sempre pronto a perorare le cause dei più deboli, convinto che ad ogni razzismo o discriminazione, anche solo culturale, bisognava sempre opporsi con la convinzione che solo l’uguaglianza e i diritti di tutti gli uomini garantivano la dignità. “L’ovattato abisso dell’alcool senza il quale”, diceva, “sarei rimasto al massimo un buon giornalista” non gli regalò la morte lieve, descritta ne “La leggenda del Santo bevitore” e la sua guerra contro Hitler, definito “Banale Medusa”, e contro ogni ingiustizia terminò il 23 Maggio del ’39 su di un tavolino di marmo, tra i fogli riempiti con cura e bicchieri svuotati di Pernod e Calvados.
“La storia deve saper cogliere la chance rivoluzionaria per farsi profilo di sensatezza”, perché anche “i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”: sono le parole-guida per comprendere la tragicità del nostro presente, scritte poco prima di suicidarsi, per sfuggire alla Gestapo, da Walter Benjamin (il 26 Settembre del ’40, a Portbau, al confine tra Francia e Spagna), critico e saggista abituato a tradurre le emozioni dell’anima con la “tonalità affettiva delle parole”, filosofo capace di unire fra loro le connessioni del sapere in “costellazioni” di pensiero, volutamente sospeso in una soglia fra opposti, in penombra fra buio e luce. Già “estraneo” al mondo dei professionisti della filosofia nella Parigi degli anni Trenta, in perenne lotta per il suo sostentamento economico, Benjamin viveva la solitudine profonda e lo sradicamento degli esuli, ebrei, braccati come cani randagi. Adorava incastonare le parole, tracciate su foglietti occasionali, con disegni e schemi grafici, per visualizzare i suoi acrobatici passaggi della mente e i frammenti degli eclettici pensieri. Era “un marxista sui generis”, come lo definiva la Arendt, “che si tuffava come un pescatore di perle negli abissi” per riportare in superficie ciò che di prezioso vi giaceva cristallizzato. Mentre la catastrofe incombeva, la socialdemocrazia tedesca e francese avevano fallito e “il progresso un inganno che ha corrotto gli animi”, Benjamin descriveva l’Angelo della Storia, come il suo Angelus Novus, “con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, che volge le spalle contemplando le macerie, mentre la tempesta lo spinge verso un futuro incerto. Così come lo è il nostro presente.
L’odissea di Irène Némirovsky, figlia di una famiglia della ricca borghesia finanziaria russa, iniziata nel 1917, subito dopo la rivoluzione sovietica, e conclusa a 39 anni nel 1942 nel campo di sterminio di Auschwitz, è quella di una donna che riassume in sé la storia e la tragedia del XX° Secolo. Dimenticata per oltre 50 anni sia dalla comunità intellettuale ebraica, oltre che dal mondo culturale ufficiale, è diventata un’icona della moderna letteratura a partire dal 2004 con il successo postumo di “Suite francese”. Nella nuova “terra di accoglienza”, a Parigi, ritrovò la sua identità, la sua patria e l’illusoria certezza di appartenere a pieno titolo alla cultura del paese, tanto da richiedere la cittadinanza francese, che le fu sempre negata, fino a subire le discriminazioni razziali durante il regime collaborazionista di Vichy. Già nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler, aveva confidato profeticamente in una lettera: “Amica mia, fra un po’ saremo tutti morti”. Quando ormai i nazisti invadono la Francia, fra il ’41 e il ’42, fugge esiliata nella campagna ad Issy-l’Eveque, per salvare se stessa, le due figlie e il marito, scrivendo i suoi ultimi capolavori e compilando i suoi quaderni di riflessioni, dove si mischiano disincanto, rabbia, disprezzo, stupore, dolore per la devastazione morale che sta perpetuando il collaborazionismo. E’ consapevole che sta scrivendo per i posteri e di essere “come in una zattera in mezzo ad un oceano di foglie putride, inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me”. E poi osserva: “Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita…Aspettiamo”.
Metafora del nostro presente che suona per tutti come “Ma dove sta andando l’Europa?”, con l’affermarsi di partiti e movimenti neonazisti, governi illiberali e xenofobi, società sempre più classiste e parcellizzate, stragi di giovani come in Norvegia e ora a Tolosa.
Senza la consapevolezza della memoria storica non ci può essere civiltà né futuro, “quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, così scriveva nel 1951 la filosofa tedesca, di origini ebraiche, Hannah Arendt, nel saggio “Le origini del totalitarismo”, analizzando “la banalità del male”. Argomento che diventerà poi il filo conduttore delle sue cronache per il settimanale “The New Yorker”, nel ’61, durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme. Il criminale si definiva “una rotellina del grande ingranaggio: il meccanismo della distruzione”, diceva, “dipendeva dall’Ufficio centrale per gli Affari economici e amministrativi, non era compito nostro decidere dove mandare i trasporti, io ero un piccolo ufficiale subalterno. Dovevo occuparmi solo dell’organizzazione dei trasporti”. Ma il caso Eichmann, grazie anche alle corrispondenze della Arendt (sulla base delle quali più tardi scriverà la sua famosa opera “Rapporto sulla banalità del male”), spalancò le porte della storia e gli occhi dell’umanità inconsapevole sulla Shoah e permise, dopo l’orrore e il silenzio assordante che ne seguì, di acquisire la piena presa di coscienza dello sterminio nazista. §
E risuonano nel frastuono della violenza armata di Tolosa le profetiche parole tratte dal carteggio di Roth e Stefan Zweich (morto suicida nel ’42 insieme alla moglie proprio come “estrema espiazione” del suo essere ebreo in un mondo ormai incomprensibile). Mentre Zweich gli scrive: “Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere. La questione ebraica purtroppo si risolve con il venir meno di ogni differenza tra le provette d’Europa”; Roth gli risponde con estrema chiaroveggenza: “La sua saggezza è grande, ma la sua umanità le impedisce di vedere il Male. Lei, caro amico, vive di una fede credendo nel Bene, ma io a volte vedo e sento arrivare segni ingannatori, ma in realtà precisi del Male”.
Nessun castigo né pena potrà mai essere adeguatamente comminata all’orco nero, esecutore materiale dell’uccisione dei bambini nella scuola ebraica Ozar Hatorah di Tolosa, nè ai suoi mandanti ideologici, nutriti della linfa velenosa dell’antisemitismo permanente e dilagante, che come polvere sottile si è sollevata dalle ceneri di Auschwitz e non ha mai più cessato di spargersi per i cieli grigi d’Europa.
Una lunga scia di intolleranza e di odio razziale e religioso, amplificata anche dal WEB, in cui “l’Ebreo” rappresenta il bersaglio ideale da sbeffeggiare e annientare, punto di sintesi e convergenza di tutti i fanatismi, simbolo ideale di “ogni diversità”. Con un crescendo di violenza, dai giorni degli oltraggiosi atti vandalici effettuati da gruppi neonazisti nel 1982 verso i luoghi di culto, scuole e cimiteri ebraici europei, alle black-list online dei “professori servi d’Israele”, alla deriva autoritaria e xenofoba dell’Ungheria. Un cambiamento di clima, un ritorno al “Male” e ad un’organizzazione del “pensiero” sempre più denso di presagi, destinato a non disperdersi e circondato da irresponsabile sottovalutazione.
Se le parole rischiano di diventare troppo anguste per raccontare la realtà del presente, che ha le sue radici e il suo significato nel recente passato, devastante, del XX° Secolo, ancora molto da indagare, è utile riprendere la trama della storia tracciata dal drammaturgo Peter Weiss nella sua “Istruttoria”: “Non sono solo parole, quando si dice che Auschwitz continua ancora dentro e intorno a noi”; proseguendo poi nella riflessione, sfogliando le pagine dei grandi scrittori e pensatori del Novecento che hanno attraversato l’oceano in tempesta del nazismo.
Molti anni prima della filosofa tedesca Hanna Arendt, l’austriaco, di origini ebraiche, Joseph Roth (autore di Giobbe, Marcia Radetzky, Fuga senza fine, Confessioni di un assassino, L’Anticristo) aveva già messo a nudo la “banalità del male”, la sua volgare pochezza contro cui era necessario “combattere restando in trincea contro le belve, per il genere umano”, perché lo scrittore “ha il dovere di mobilitarsi contro l’inumanità del mondo attuale, lo scrittore non ha mai il diritto di reclamare per sé la sua vocazione…il talento, il genio non lo dispensano in alcun modo a combattere contro il male…uno scrittore per esempio che non combatte Hitler e il Terzo Reich”, scriveva nel 1934, “è chiaramente un cattivo scrittore”.
La sua “trincea” fu Parigi dal 1933 al ’39; il suo rifugio il caffè “Le Tournon” alle spalle dei giardini del Luxemburg, dove con la magia della sua penna riusciva a superare i confini culturali, religiosi e politici di un’Europa caduta nell’abisso, distante ormai da quella utopica, che aveva sognato, liberata dalle ideologie e unita dai principi dell’universalismo cosmopolita, ma schiacciata tra una guerra mondiale vissuta di persona e un’altra che si preannunciava. “Un continente triste e ormai prossimo alla morte”, così appariva nei suoi reportage scritti per i giornali tedeschi, alla fine degli anni Venti, che suonano ancora attualissimi. Con lucida preveggenza seppe leggere nelle contraddizioni e nei tormenti della sua epoca quei germi di violenza, di nazionalismo esasperato e di indifferenza alla cultura e ai valori di legalità, che portarono poi al nazifascismo e alla Seconda guerra mondiale. Roth è la personificazione iconografica dell’“ebreo errante”, come lo sono tanti protagonisti dei suoi libri, dalla vita in fuga e perdente, mai vissuta al presente. Gran bevitore, senza fissa dimora, privo di sostentamento (i beni gli erano stati confiscati dal regime), sempre pronto a perorare le cause dei più deboli, convinto che ad ogni razzismo o discriminazione, anche solo culturale, bisognava sempre opporsi con la convinzione che solo l’uguaglianza e i diritti di tutti gli uomini garantivano la dignità. “L’ovattato abisso dell’alcool senza il quale”, diceva, “sarei rimasto al massimo un buon giornalista” non gli regalò la morte lieve, descritta ne “La leggenda del Santo bevitore” e la sua guerra contro Hitler, definito “Banale Medusa”, e contro ogni ingiustizia terminò il 23 Maggio del ’39 su di un tavolino di marmo, tra i fogli riempiti con cura e bicchieri svuotati di Pernod e Calvados.
“La storia deve saper cogliere la chance rivoluzionaria per farsi profilo di sensatezza”, perché anche “i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”: sono le parole-guida per comprendere la tragicità del nostro presente, scritte poco prima di suicidarsi, per sfuggire alla Gestapo, da Walter Benjamin (il 26 Settembre del ’40, a Portbau, al confine tra Francia e Spagna), critico e saggista abituato a tradurre le emozioni dell’anima con la “tonalità affettiva delle parole”, filosofo capace di unire fra loro le connessioni del sapere in “costellazioni” di pensiero, volutamente sospeso in una soglia fra opposti, in penombra fra buio e luce. Già “estraneo” al mondo dei professionisti della filosofia nella Parigi degli anni Trenta, in perenne lotta per il suo sostentamento economico, Benjamin viveva la solitudine profonda e lo sradicamento degli esuli, ebrei, braccati come cani randagi. Adorava incastonare le parole, tracciate su foglietti occasionali, con disegni e schemi grafici, per visualizzare i suoi acrobatici passaggi della mente e i frammenti degli eclettici pensieri. Era “un marxista sui generis”, come lo definiva la Arendt, “che si tuffava come un pescatore di perle negli abissi” per riportare in superficie ciò che di prezioso vi giaceva cristallizzato. Mentre la catastrofe incombeva, la socialdemocrazia tedesca e francese avevano fallito e “il progresso un inganno che ha corrotto gli animi”, Benjamin descriveva l’Angelo della Storia, come il suo Angelus Novus, “con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese”, che volge le spalle contemplando le macerie, mentre la tempesta lo spinge verso un futuro incerto. Così come lo è il nostro presente.
L’odissea di Irène Némirovsky, figlia di una famiglia della ricca borghesia finanziaria russa, iniziata nel 1917, subito dopo la rivoluzione sovietica, e conclusa a 39 anni nel 1942 nel campo di sterminio di Auschwitz, è quella di una donna che riassume in sé la storia e la tragedia del XX° Secolo. Dimenticata per oltre 50 anni sia dalla comunità intellettuale ebraica, oltre che dal mondo culturale ufficiale, è diventata un’icona della moderna letteratura a partire dal 2004 con il successo postumo di “Suite francese”. Nella nuova “terra di accoglienza”, a Parigi, ritrovò la sua identità, la sua patria e l’illusoria certezza di appartenere a pieno titolo alla cultura del paese, tanto da richiedere la cittadinanza francese, che le fu sempre negata, fino a subire le discriminazioni razziali durante il regime collaborazionista di Vichy. Già nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler, aveva confidato profeticamente in una lettera: “Amica mia, fra un po’ saremo tutti morti”. Quando ormai i nazisti invadono la Francia, fra il ’41 e il ’42, fugge esiliata nella campagna ad Issy-l’Eveque, per salvare se stessa, le due figlie e il marito, scrivendo i suoi ultimi capolavori e compilando i suoi quaderni di riflessioni, dove si mischiano disincanto, rabbia, disprezzo, stupore, dolore per la devastazione morale che sta perpetuando il collaborazionismo. E’ consapevole che sta scrivendo per i posteri e di essere “come in una zattera in mezzo ad un oceano di foglie putride, inzuppate dal temporale della notte scorsa, con le gambe ripiegate sotto di me”. E poi osserva: “Mio Dio, cosa mi combina questo paese? Dal momento che mi respinge, osserviamolo freddamente, guardiamolo mentre perde l’onore e la vita…Aspettiamo”.
Metafora del nostro presente che suona per tutti come “Ma dove sta andando l’Europa?”, con l’affermarsi di partiti e movimenti neonazisti, governi illiberali e xenofobi, società sempre più classiste e parcellizzate, stragi di giovani come in Norvegia e ora a Tolosa.
Senza la consapevolezza della memoria storica non ci può essere civiltà né futuro, “quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, così scriveva nel 1951 la filosofa tedesca, di origini ebraiche, Hannah Arendt, nel saggio “Le origini del totalitarismo”, analizzando “la banalità del male”. Argomento che diventerà poi il filo conduttore delle sue cronache per il settimanale “The New Yorker”, nel ’61, durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme. Il criminale si definiva “una rotellina del grande ingranaggio: il meccanismo della distruzione”, diceva, “dipendeva dall’Ufficio centrale per gli Affari economici e amministrativi, non era compito nostro decidere dove mandare i trasporti, io ero un piccolo ufficiale subalterno. Dovevo occuparmi solo dell’organizzazione dei trasporti”. Ma il caso Eichmann, grazie anche alle corrispondenze della Arendt (sulla base delle quali più tardi scriverà la sua famosa opera “Rapporto sulla banalità del male”), spalancò le porte della storia e gli occhi dell’umanità inconsapevole sulla Shoah e permise, dopo l’orrore e il silenzio assordante che ne seguì, di acquisire la piena presa di coscienza dello sterminio nazista. §
E risuonano nel frastuono della violenza armata di Tolosa le profetiche parole tratte dal carteggio di Roth e Stefan Zweich (morto suicida nel ’42 insieme alla moglie proprio come “estrema espiazione” del suo essere ebreo in un mondo ormai incomprensibile). Mentre Zweich gli scrive: “Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere. La questione ebraica purtroppo si risolve con il venir meno di ogni differenza tra le provette d’Europa”; Roth gli risponde con estrema chiaroveggenza: “La sua saggezza è grande, ma la sua umanità le impedisce di vedere il Male. Lei, caro amico, vive di una fede credendo nel Bene, ma io a volte vedo e sento arrivare segni ingannatori, ma in realtà precisi del Male”.
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