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Articolo 21 - Editoriali
Il coraggio dell'intelligenza!
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di Erfan Rashid*

Un commando terrorista mina la più grande moschea sciita nella città di Sammara a
maggioranza sunnita. un gruppo di terroristi blocca la trooupe del canale satellitare saudita Al Arabiya e uccide sul colpo la giornalista irachena Attwar Bahjat, il suo cameraman e il tecnico del suono, mentre un quarto tecnico sfugge all'agguato eseguito a sangue freddo e "come se fosse su commissione" dichiara Ahmad Al saleh, corrispondente di Al Arabiya da Baghdad. Trascorrono poche ore e molte moschee sunnite in varie città del Paese vengono prese di mira, assaltate e molti fedeli uccisi mentre a tarda sera uomini armati entrano nella prigione della città di
Bassora uccidendo 11 detenuti, probabilmente sunniti, di cui alcuni di nazionalità
non irachena, detenuti con l'accusa di aver partecipato in atti di terrorismo e di sabotaggio. L'Iraq torna a ricadere nel baratro della violenza sfrenata e il presidente Jalal Talabani convoca i leader dei partiti politici per discutere della situazione e trovare una soluzione. Molto ci si aspetta da questo incontro ma in mattinata il gruppo di maggioranza sunnita, La Concordia, decide di disertare l'incontro giustificando la decisione con il fatto che "il governo uscente, a maggioranza curda e sciita, ha fallito nella protezione dei luoghi sacri sunniti dagli estremisti sciiti, che hanno attaccato circa 30 moschee dopo l'attentato a Samarra". E' prevalsa, dunque, un'altra volta, la logica della tribù e la logica della chiusura.

Ma quanto sarebbe utile e vitale per gli iracheni che i politici, in cui i cittadini hanno riposto la loro fiducia, fossero più intelligenti e non solo politicanti e militanti di questo o quel gruppo etnico o religioso?

Quanto servirà al martoriato Iraq di oggi che gli sciiti decidano di trasformarsi, finalmente, da maggioranza numerica a moggioranza politica?

E, ancora, quanto servirà all'Iraq che i gruppi sunniti prendano coscienza che si fanno del male (e ne fanno anche all'Iraq) nel perseguire le logiche settarie e che la logica dei terroristi, che a lungo hanno protetto, non tiene, e non terrà mai conto delle loro rivendicazione per una vera e piena partecipazione al processo politico in Iraq?

Queste non sono domande sognanti o illusorie, bensì urgenze che i politici iracheni
non possono, e non devono in alcun modo, eludere perché la posta in gioco è molto più alta di quanto possano immaginare. E' in gioco il futuro del Paese che viene trascinato dai fondamentalisti sempre più sulla strada della guerra civile. E se il
tentativo fondamentalista in questa direzione non era finora riuscito ciò non significa che esso non possa raggiungere il suo obiettivo. Infatti l'elevazione del grado di gravità degli attacchi e la particolarità degli obiettivi scelti preludono, purtroppo, alla possibilità che il controllo sgfuga di mano a tutti i protagonisti e che il comando ritorni nelle mani di Abu Musaab Al Zarqawi che era stato messo in fuga dalle stesse tribù sunnite nelle settimane successive alle elezioni dopo che per lunghi mesi era stato, colpevolmente, protetto e ospitato nelle zone di Falluja e Ramadi.

E ora che fare?

Pur essendo un presidente uscente, ma con molta probabilità sarà rieletto, Talabani
dovrà esercitare carisma, far sentire il suo peso politico, proseguire sulla via dell'intelligente equilibrio dimostrato da quando si è insediato, accreditandosi come presidente di tutti gli iracheni. Ma tutto questo forse non basterà. Dovrà alzare la voce e mettere tutti, in primo luogo i partiti religiosi, sciiti e sunniti, davanti alla loro responsabilità storica per porre fine alla situazione di stallo che investe le istituzioni irachene. Trascorsi quasi tre mesi dalle elezioni, il Paese non ha un nuovo presidente eletto, né un nuovo governo, né un Parlamento che possa dare inizio alla nuova legislatura.

Questi ritardi stanno causando molti danni di cui due particolarmente gravi. Da un
lato la perdita di fiducia tra le gente verso l'istituto del voto,dall' altro, cosa ancor più pericolosa, il rinvigorirsi dei gruppi terroristici. 

E' probabile che, facendo saltare in aria la moschea della cupola dorata di Samarra,
i terroristi abbiano commesso un grande errore perché, pur essendo venerata dagli
sciiti, quella moschea era (e resta) una delle più importanti moschee in una città a
maggioranza assoluta sunnita. Una moschea che al di là della sua importanza relgiosa e storica, rappresentava una fonte di ricchezza per la città perché meta di decine di migliaia di pelligrini sciiti e sunniti da tutto il mondo.

Si sono dati la zappa sui piedi i terroristi?

Forse.

Ma l'emotività che l'attentato ha suscitato sta causando una ondata di reazioni che,
vista la composizione tribale delle zone dove si ergono i mausolei sciiti e sunniti in Iraq, potrebbe sfociare in un concatenarsi di violenze e vendette che, se non bloccate in tempo, potrebbe portare il Paese sul baratro di una sanguinosa guerra
civile. Una guerra, i cui danni non si limiterebbero ai puri costi del conflitto, come daltronde succede pe r tutto ciò che accade nel Medio Oriente.
Se la storia può essere di insegnamento, i politici iracheni, in questo momento
riuniti nella residenza del presidente Talabani dovranno imparare qualcosa da un
fatto storico italiano. All'indomani dell'attentato di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, l'Italia politica seppe dare una risposta intelligente accelerando le elezioni del presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel passo tolse l'Italia, e forse molte altre nazioni europee, dallo smarrimento totale causato dalla gravità dell'accaduto e dalla statura della vittima. I meccanismi dello sventramento della moschea della cupola dorata sono simili a quelli dello sventrameto dell'autostrada di Capaci ma, nulla togliendo dalla gravità della strage in Sicilia, quello di Samarra è molto più grave, molto simile all'attentato del 14 febraio dello scorso anno a Beirut in cui rimase ucciso l'ex primo ministro libanese Rafik Hriri.

Sarà molto difficile attendersi oggi in Iraq manifestazioni pacifiche simili a quelle che hanno colorato di rosso e bianco la piazza dei martiri a Beirut. Ma non è assolutamente fuori luogo richiamare i politici iracheni al loro dovere di essere, una volta per tutte, all'altezza della fiducia che milioni di iracheni che, rischiando in prima persona, hanno riposto in loro nelle urne elettorali.

Occorre che dall'incontro tra il presidente Talabani e i capi dei partiti iracheni scaturisca un governo iracheno rappresentativo di tutti i partiti. Occorre che, oltre al rispetto del responso delle urne venga messo in primo luogo l'interesse supremo della nazione. Occorre che Jalal Talabani si trasformi nel Mandela o nel Bouteflika iracheno. Ma occore, senza alcuna attenuante, che gli sciiti si trasformino, finalmente, da maggioranza numerica in maggioranza politica capace di guidare il Paese e di condividere con le altre componenti della società irachea l'onore e l'onere della guida dell'Iraq. Solo così si potrà dare una flebile speranza agli iracheni.

Il contrario sarebbe tragico. Mi pesa dirlo ma bisogna armarsi di coraggio e gridarlo. Il contrario sarebbe la guerra civile. Sarebbe la vanificazione del sacrificio di milioni di iarcheni, ma soprattutto sarebbe la rivincita del terrorismo e di Saddam Hussein.

* Capo redattore del Desk arabo Adnkronos International (AKI)

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