di Marco Calamai
Ma è davvero finita la guerra in Iraq con la partenza (comunque parziale poiché restano ben cinquanta mila uomini) delle truppe americane? Se per guerra s’intende l’impegno armato diretto degli Usa in territorio iracheno, è probabile che la guerra sia finita. Per Obama, che ha ereditato in quel paese uno dei disastri più colossali della storia americana, sarà molto difficile, se non impossibile, tornare (per via soprattutto dell’Afghanistan, altro disastro annunciato e probabilmente imminente). Se invece per guerra si intende il conflitto civile che dal 2003 ha già provocato più di 100 mila morti, allora no, la guerra non è finita. E ciò per diverse ragioni di cui due, in particolare, si presentano cruciali.
- E’ fallita l’operazione “trapianto democratico”, teorizzata dai neoconservatori che hanno a suo tempo plagiato George Bush. Perché? Perché si trattava di un trapianto - avviato da Paul Bremer (ve lo ricordate il “super” governatore americano che fece e disfece la vita politica irachena dopo l’invasione?) con il sostegno di politici locali in verità poco accreditati all’interno del paese - che ipotizzava un regime “democratico” basato su libere elezioni di tipo proporzionale e un accordo tra le diverse componenti etniche, religiose e tribali. Un accordo che era semplicemente irrealistico in un paese dominato, dalla fine della prima Guerra mondiale, da regimi autoritari (protettorato inglese e monarchia) e totalitari (Saddam) nei quali il potere è sempre stato fermamente nelle mani della minoranza sunnita (il 20% della popolazione, contro il 20% curda e il 60% circa sciita). Il modello democratico targato Bush non poteva funzionare perché consegnava il potere nelle mani degli sciiti, invisi ai sunniti ben più degli stessi occupanti americani. I curdi (musulmani sunniti ma non arabi), dal canto loro, hanno accettato la formula americana soltanto perché l’hanno giudicata come la strada più indolore, anche se necessariamente lunga, per raggiungere la tanto desiderata indipendenza alla quale certo non intendono rinunciare.
Fatto sta che oggi, come dimostra l’incapacità di formare un governo di coalizione che in qualche modo rappresenti i principali gruppi etnici e religiosi del paese, si fa strada un’ altra inquietante ipotesi: la possibilità che il paese si spezzi in tre. Sciiti, curdi e sunniti ciascuno per la sua strada, tornando in qualche modo a quelle tre province separate che facevano parte - scelta assai più saggia da quella fatta poi dai britannici - dell’impero ottomano prima della sua dissoluzione.
- E’ fallita, clamorosamente, la ricostruzione. Le cronache di questi giorni ripropongono, a chi è stato in Iraq nella fase iniziale dell’occupazione come chi scrive questa nota, lo stesso identico scenario: milioni di persone, che chiedevano agli occupanti sicurezza (contro gli attentati), acqua e luce. Come spiegare questa situazione dopo ben sette anni? La risposta è paradossalmente semplice: la ricostruzione è fallita perche non si è voluto costruire uno Stato funzionante che avrebbe richiesto un reale protagonismo del popolo iracheno a livello centrale e periferico (come sostiene Amartia Sen in “La democrazia degli altri”) e una saldatura tra le sue diverse specificità. Il che non era possibile dato l’antagonismo storico tra sunniti e sciiti che il regime di Saddam aveva alimentato fino al parossismo. Ma la ricostruzione è fallita anche per un’altra ragione che la stampa internazionale (salvo rare eccezioni) ha raramente raccontato. Ovvero la volontà del neoconservatori di Washington di creare una struttura economica di tipo ultra liberista, affidando le opere a ditte amiche ( spesso “molto amiche” del Vice Presidente Dick Cheney come nel noto caso della Halliburton ) ed escludendo dalle gare di appalto le società irachene e quindi i lavoratori iracheni. Con il risultato, davvero paradossale - se si pensa ai 700 miliardi di dollari spesi dagli Usa nell’avventura irachena e al fatto che l’enorme risorsa petrolifera non è stata ancora utilizzata a fini di sviluppo interno (altro capitolo poco commentato dalla stampa e che andrebbe invece analizzato per la sua importanza cruciale nella vicenda irachena) - che la ricostruzione non è mai veramente decollata mentre le imprese irachene, la maggioranza, sono state chiuse o ristrutturate. Risultato: disoccupazione e miseria sono cresciute come mai in passato. Così il caso iracheno è diventato, come ha spiegato lucidamente Naomi Klein nel suo libro “The Disaster Capitalism” (una lettura che consigliamo vivamente ai tanti neoliberisti nostrani di variopinta origine e ai non pochi ammiratori, tuttora, di Bush) il più clamoroso, e purtroppo sanguinoso, esempio di quella lucida follia che ha animato l’utopia neoliberista, piattaforma ideologica dei neoconservatori, teorizzato dall’economista Milton Friedman (il consigliere di Pinochet) e fatto proprio da Reagan e dalla Thatcher. Un sogno che in Iraq si è trasformato in un incubo da cui nessuno sa più come uscire.
E ora? Ora c’è solo da sperare che i grandi paesi e le organizzazioni internazionali che potrebbero in qualche modo influire nella vicenda irachena (Usa, Iran, Arabia saudita, Russia, Cina, Unione Europea, ONU..) si siedano attorno ad un tavolo per cercare, con il consenso delle tre componenti della società irachena, una soluzione stabile e pacifica della terribile crisi che sta divorando questo paese. Ipotesi, questa, se non impossibile certo molto difficile data la situazione regionale e i tanti appetiti (in primo luogo petroliferi ma non solo) che dividono i diversi soggetti interessati. Se ciò non avverrà, diventerà inesorabile la trasformazione dell’attuale conflitto interno in una vera e propria guerra civile su larga scala che finirebbe per coinvolgere l’intera regione e forse ben altro.