di Shukri Said
La famosa Legge di Murphy – Se qualcosa può andar male lo farà – ha dieci corollari dei quali uno dice “Le cose lasciate a loro stesse tendono ad andare di male in peggio”. Murphy che, come il nostro Pulcinella, ridendo e scherzando dice la verità, trova nel rebus della Somalia la più drammatica delle conferme. Il mondo dimentica la Somalia, ma la Somalia si ripropone ogni volta più cruenta e le notizie dell’assalto dei due kamikaze di Al Shaabab all’Hotel Muna di Mogadiscio con i suoi 33 morti, sono l’ultimo avvertimento a non abbandonare quella terra al suo destino perché, cadendo di male in peggio, urlerà ancora più forte nelle orecchie dei distratti.
Sono 19 anni che la Somalia non trova pace e altrettanti che scivola sempre più nelle peggiori nefandezze.
I Signori della guerra a capo dei vari clan si sono dapprima scagliati gli uni contro gli altri, poi hanno svenduto il territorio per lo smaltimento dei rifiuti tossici, infine hanno accolto i terroristi di Al Qaeda.
Certo i somali non sono facili.
Dopo la cacciata di Siad Barre, le famiglie più abbienti e acculturate hanno abbandonato il Paese lasciando spazio agli odi tribali e alle rivalità claniche più retrive.
La tradizione del combattimento fa dei somali avversari temibili ed astuti e ne sanno qualcosa i militari della missione Restore Hope. Iniziata nel 1992 per arginare la guerra civile, fu abbandonata dopo che due elicotteri americani vennero abbattuti e i cadaveri di alcuni dei 18 soldati che vi morirono furono legati per i piedi alle Tecniche – pick up fuoristrada armati di mitragliatrici – e trascinati per le vie di Mogadiscio: una riedizione di Achille che trascina sotto le mura di Troia, legato al suo carro in corsa, il cadavere di Ettore. Un rito orrifico che determinò l’abbandono della missione ONU come decretò il finale dell’Iliade.
I somali sono agili nel fisico e nella mente. Orgogliosi e individualisti. Furbi e spavaldi. Amano la competizione e la vittoria.
Di pirati nel mondo ce n’è tanti, ma nessuno ha conseguito i successi dei somali del Golfo di Aden, sequestrando decine di navi e riscuotendo milioni di riscatti. Il tutto armati solo di barchini veloci e mitragliatori che in quelle latitudini abbondano.
I somali sono allegri e fanfaroni. Arguti nel parlare. Appassionati dell’amore e della poesia.
Difficile credere che, con questi cromosomi, abbraccino l’estremismo islamico per fede più che per opportunismo.
E’ vero che le ideologie sono affascinanti per le giovani menti e che vi sono ormai due generazioni che, appena lasciato il latte materno, hanno imbracciato i fucili, ma Al Qaeda nel Corno d’Africa è frutto di uno spazio abbandonato più che dell’affermarsi di vocazioni ascetiche.
L’islamismo somalo è sempre stato aperto e tollerante, mai vessatorio o costrittivo. Tanto meno con le donne che, anzi, hanno sempre goduto di stima e rispetto indossando per tradizione elegantissime mussoline dalle conturbanti trasparenze assai lontane dai burqa imposti oggi.
Il terrorismo wahabita è in Somalia un corpo estraneo che però, mescolandosi all’istinto clanico, diventerà sempre più difficile da sradicare.
La paura di cimentarsi con un popolo guerriero reso ancora più bellicoso dal fanatismo religioso d’importazione, tiene lontane truppe di peacekeeping più numerose, armate e meglio addestrate dei seimila soldati ugandesi e del Burundi che costituiscono l’attuale contingente di Amisom.
Ma senza un intervento ben più deciso di quello attuale, gli sforzi sin qui compiuti dalla comunità mondiale non serviranno alla rifondazione della Somalia, un Paese che da tempo ha perduto i contatti col mondo civile e ormai popolato da troppi mostri sanguinari ai quali i traballanti governi di transizione fanno il solletico.
Nell’attesa di questo rinnovato impegno internazionale, tuttavia, non si possono chiudere le porte in faccia a quei disperati che riescono a fuggire dal mattatoio di Mogadiscio, come ha fatto l’Italia con i respingimenti indiscriminati in mare.
Le parole di questi giorni del Ministro degli esteri Frattini e le esortazioni di Papa Ratzinger siamo certi che si tradurranno in opere di cui sicuramente la Somalia beneficerà, ma nel frattempo occorre modificare la gestione della frontiera mediterranea. Non indiscriminatamente, ma almeno aprendo un ufficio in Libia che verifichi chi, tra i profughi del Corno d’Africa, meriti l’asilo.
Un impegno, questo, che potrebbe realizzarsi immediatamente, magari cogliendo l’imminente arrivo del Colonnello Gheddafi a Roma e che, per il suo carattere umanitario e rispettoso dei più elementari diritti umani, recupererebbe l’Italia alla stima internazionale dopo i richiami dei mesi passati troppo frettolosamente dimenticati dal Ministro Maroni. Un impegno che, comunque, costerebbe assai meno, in denaro e vite umane, che combattere oggi Al Qaeda in Somalia dando il tempo alla collettività internazionale di organizzarsi in tal senso.
Perché questo è già ora un obiettivo ineludibile. Abbandonare la Somalia ad Al Qaeda significa che Al Qaeda busserà presto a casa nostra. E, come tutti sanno, prevenire è meglio che curare.
*Segretaria e Portavoce dell’Associazione Migrare, coautrice di RadioMigrante