di Beppe Sebaste
da L'Unitaâ??
In questi giorni avrei voluto scrivere una nuda lettera ai giornali per esprimere dal basso non solo lâ??angoscia e la repulsione per la tortura agli irakeni, ma per quella guerra illegale e «preventiva» che resta lo scandalo peggiore, e per tutti coloro che, nel nostro Paese, hanno sostenuto con sicumera e baldanza lâ??esportazione della democrazia a suon di cacciambombardieri, mentre la parola pacifista diventava un insulto. Ma la parola tortura evoca anche altri scenari e immaginazioni. Tre secoli dopo Cesare Beccaria, uno si pone degli interrogativi radicali sul valore delle parole e della civiltà , e se per carattere e mestiere è portato a vedere le analogie degli effetti e delle cause, dopo un poâ?? cessa di stupirsi dello stupore; e si chiede se la tortura - produrre sofferenza in altri esseri umani per il piacere di farlo o per estorcere qualcosa, fino al più nudo, estremo degrado, sordi e ciechi agli appelli e ai lamenti - non sia già sempre allâ??opera, in diversa misura, nelle tribolazioni di molti che abitano le nostre democrazie. La tortura è diabolica, cioè senza senso, perché già il dolore non tollera senso e giustificazione: dyaballo (da cui dia-bolo, contrario di symballo, simbolo), vuol dire questo in greco, disgregare e perdere senso. Opposto della tortura è infatti lâ??empatia, che come il simbolo significa unione, condivisione, forse com-passione. Non è tra i valori più diffusi. Penso allo stillicidio quotidiano di torture, spesso invisibili, che patiscono i profughi, i senza-casa, i senza- pane, i senza-lavoro, i senza-amore. Ci sono torture costantemente in atto ma indegne di notizia, e che variamentemodulano la trama dei romanzi o dei film che commuovono famiglie e singoli nei week-end. Ma che non riconoscerebbero, nude, nel loro quartiere o nel loro condominio. E se le sale dâ??aspetto e gli ambulatori dei pronto-soccorso, certe notti più che altre, ne presentano un campionario, i volti di chi va a lavorare alle sette del mattino e dovrà farlo per sopravvivere fino al sessantacinquesimo anno di età , non sono esenti da sofferenza. Ho visto e continuo a vedere uomini e donne impazzite dalla tortura degli affetti, prostrati dalla mancanza di empatia di chi fino al giorno prima li faceva destinatari di un amore, poi revocato in odio o indifferenza, sul modello delle merci o dei vestiti che si smettono. Ho incontrato un amico che non riesce più a scrivere perché, dice, se le sue parole non lo salvano dallâ??incomprensione della donna che ama, che ora lo disama senza avergli testimoniato un senso; se le sue parole non servono ad aiutare lei e lui ad evitare la sofferenza della disgregazione, come può pensare di dire qualcosa di credibile ad altri? Lui, che ha una certa età , sa bene che «le sue poesie non cambieranno il mondo» (come il titolo di una bellissima raccolta di Patrizia Cavalli), ma sa anche che il più accanito degli eremiti o il più disperato dei naufraghi non ha mai cessato, da qualche parte, di parlare a qualcuno. E che tortura è un appello senza risposta.