di Antonio Padellaro*
Ma per quanto tempo ancora la Rai è destinata a rimanere una sorta di limbo dantesco, senza più infamia e senza più lode? Domanda impegnativa che ci obbliga a fare un passo indietro. Presi come eravamo a sezionare gli aggettivi di Prodi meno politicamente corretti, e a pretendere le dovute, immediate smentite (oddio, ha detto comunisti folkloristici), abbiamo trascurato un verbo del premier che in qualche modo ci ripaga dalle amarezze che il governo dellâ??Unione propina (dei 102 membri di governo, record di tutti i tempi, non siamo affatto contenti) a noi speranzosi illusi di sinistra. Il verbo è: stupire. O meglio, la frase esatta, pronunciata lunedì scorso dal Professore al termine del conclave di San Martino in Campo suona così: «Dobbiamo avere il coraggio di stupire, dobbiamo osare qualcosa di difficile, dobbiamo inviare al Paese un messaggio forte di cambiamento». Ora, lasciando da parte il cambiamento, omaggio del vizio alla virtù di qualunque governo, lâ??accoppiata osare-stupire rappresenta una strepitosa novità programmatica ma che impegna chi lâ??ha pronunciata a stupirci sul serio, e senza indugio. Ã? vero che lâ??incitamento prodiano era soprattutto diretto ai ministri economici, costretti a osare lâ??inosabile onde far quadrare il mitico rigore con la mitica equità . Ma non solo a essi.
Prendiamo, per esempio, il luogo deputato della creatività espressiva e del potere mediatico; e dunque il più concupito dalla politica; e dunque quello storicamente meno adatto agli esercizi di coraggio. Prendiamo la Rai, per lâ??appunto.
Lâ??
infamia lâ??ha bene descritta Piero Fassino. Con lâ??Ulivo al governo in Rai câ??erano Santoro e Mimun, Vespa e Biagi. Quando è arrivato Berlusconi gli sgraditi sono stati epurati. Ragion per cui si deve arrivare al diritto di cittadinanza per tutti e non scegliere un direttore di tg o di rete o un direttore generale in base allâ??appartenenza politica. Si sceglie sulla competenza, sulla professionalità . Naturalmente chi possiede questi criteri può anche avere unâ??appartenenza politica, ma non deve essere né un merito né una colpa.
Parole quelle del segretario ds (cioè di un leader politico) che appaiono in sintonia con il pensiero espresso da Sabina Guzzanti al Corriere della sera (cioè di una donna di spettacolo insofferente alle briglie di ogni colore). La quale Guzzanti ha detto di ritenere poco dignitoso lavorare o non lavorare a seconda del governo che câ??è in quel momento. Essa rifiuta, insomma, la logica servile e lottizzatoria, comunemente accettata, in base alla quale â??puoiâ? lavorare in Rai se câ??è un politico che ti protegge, oppure se finalmente il governo di turno te lo permette perché è più simpatico dellâ??altro.
Il fatto è che ancora oggi (due mesi buoni dopo le elezioni e il cambio di maggioranza) la Rai continua a essere una sorta di motore immobile. Produce energia ma non si muove. Dopo le ignominie della destra (lâ??editto di Sofia, lâ??occupazione militare di ogni poltrona, la censura ad alzo zero su tutto ciò che poteva dispiacere al padrone), la presidenza Petruccioli e il nuovo Cda hanno restituito decenza agli operatori di un servizio pubblico che avevano smarrito perfino il rispetto per il proprio lavoro. Lâ??effetto, però, è stato un poâ?? quello di un analgesico: il dolore è passato ma è subentrato un certo torpore. Tutti quelli che il governo Berlusconi aveva messo ai vertici dei tg dei gr e delle reti sono rimasti al loro posto. Nulla da eccepire, ci mancherebbe altro: bravi professionisti che grazie allâ??indiscutibile mestiere non hanno neppure avuto bisogno di cambiare il famoso panino dellâ??informazione politica: prima parla il governo, poi lâ??opposizione e infine la maggioranza. Come per i cinque anni precedenti, ma a parti invertite. Invano, Furio Colombo si era augurato che i giornalisti del passato regime evitassero di diventare improvvisamente sensibili al cambio di governo. Ã? più forte di loro. Quanto a quelli che la destra aveva cacciato, salvo rare eccezioni per ora restano fuori. In autunno, si vedrà . Forse.
Il problema, dicono le cronache, riguarda lâ??assetto di vertice dellâ??azienda. Câ??è un consigliere di amministrazione (Petroni) nominato dal Tesoro ai tempi del governo Berlusconi e che fa pendere ancora la bilancia a favore del centrodestra. Câ??è un direttore generale (Meocci) dichiarato incompatibile ma che non vuole dimettersi. Si aspetta un intervento di via XX settembre ma Padoa-Schioppa ha ben altre gatte da pelare. Per carità , se tutto restasse comâ??è non sarebbe una tragedia. Sarebbe semplicemente una Rai da dimenticare.
Câ??è lâ??altra possibilità , quella di Prodi, quella legata al coraggio di osare, di stupire. Ci credono i tanti che si sono mobilitati a favore della proposta di legge popolare per la riforma del sistema televisivo. Tra i primi firmatari, Tana de Zulueta, Sabina Guzzanti, Marco Travaglio, Oliviero Beha. Entro il 25 luglio le firme dovranno essere 50mila. Sono già a quota 35mila e per quelle che mancano si spera nel Firma-day del 16 giugno. Si vuole lo sganciamento della Rai dai partiti, e quindi lâ??abolizione della Commissione parlamentare di vigilanza, e quindi la nomina di un Cda affidato a un Consiglio formato da personalità dellâ??arte, del giornalismo, del sindacato, dellâ??impresa.
Sarà sicuramente un passo avanti ma, temiamo, non sufficiente a cambiare le cose in mancanza di una vera rivoluzione culturale in tutto il servizio pubblico. I tg, per esempio. Se la macchina resta sempre la stessa e i palinsesti mentali pure, potrebbe mutare qualcosa di concreto se anche a dirigerli fosse chiamato il miglior direttore in circolazione? Cambiare gli schemi? Se si vuole non è complicato. Si prende Report, di gran lunga la migliore trasmissione dâ??inchiesta della televisione italiana (e non solo), visibile nella serata della domenica sui Rai3 eppure con alti indici di ascolto. E la si impianta nel Tg1. Poi si chiede ai migliori opinionisti in circolazione (del teleschermo e della carta stampata) di commentare le notizie del momento. Quindi si da spazio alla satira e alle voci più taglienti della critica. Come fanno i grandi giornali,e i grandi telegiornali delle grandi democrazie. Per questo temiamo che resterà un sogno.
*l'Unità - 10 giugno 2006