di Lilli Gruber*
Il 13 aprile mi sveglio e butto un occhio sulla prima pagina del «New York Times»: sei generali in pensione chiedono la testa di Rumsfeld. Il tè mi va di traverso. Nelle democrazie moderne in genere i militari non si ribellano all'autorità politica legittimata dal voto nazionale. Anche quando non sono più in servizio attivo, gli ufficiali mantengono un dovere di riservatezza che impedisce di muovere critiche dal tono troppo personale o vendicativo.
Al limite possono farlo quando scrivono un libro di memorie. Ma in questo caso siamo in piena guerra e sei generali autorevoli, pluridecorati e, in alcuni casi, appena rientrati da missioni sul campo, chiedono al presidente di cacciare l'uomo che li ha comandati per cinque anni.
Chiamo Anthony Zinni. ? un ex generale dei Marine, ha sessantatre anni e come ultimo incarico è stato a capo del Central Command (Centcom), responsabile delle operazioni militari in Medio Oriente, Africa orientale e Asia centrale. In altre parole tutti i fronti caldi del pianeta. ? uno dei sei generali citati nel «New York Times».
«Rumsfeld deve essere considerato responsabile dei gravi errori commessi nella pianificazione ed esecuzione della missione in Iraq» mi spiega da Washington. Già dall'inizio delle operazioni in Iraq, Zinni non faceva mistero della sua opinione: era convinto che la decisione di entrare in guerra fosse stata troppo affrettata. Conosce bene quell'area del mondo e pensava che, benché Saddam Hussein rappresentasse un pericolo per gli Stati vicini, la «strategia di contenimento» messa in atto alla fine della guerra del 1991 avrebbe evitato ulteriori aggressioni. Nel 2002 era entrato a far parte dello staff dell'amico Colin Powell, diventato segretario di Stato. Lo aveva voluto come inviato speciale per il Medio Oriente con il compito di rilanciare il dialogo israelo-palestinese. Fatica sprecata.
Gli esprimo la mia sorpresa per la sua critica pubblica così esplicita. «Per quanto ne so, non c'è mai stata un'iniziativa simile prima d'ora» ammette con una certa prudenza.
Zinni è un personaggio fuori del comune. La sua famiglia è originaria dell'Abruzzo. Il padre arrivò negli Stati Uniti giusto in tempo per essere arruolato nell'esercito durante la Prima guerra mondiale. Ne uscì con tutti gli onori e la cittadinanza americana in tasca. Da allora la famiglia ha sempre servito la bandiera: gli zii e i cugini hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale, il fratello è stato in Corea e lui in Vietnam. Il figlio è capitano dei Marine in Afghanistan e probabilmente partirà per l'Iraq.
Gli chiedo se è contrario alla guerra in sé o soltanto al modo in cui è stata condotta.
«Fondamentalmente credo che le cose importanti fossero altre. Dovevamo chiudere i conti con Al-Qaeda. Impegnarci nella ricostruzione in Afghanistan. Assumerci nuovi impegni con l'Iran e il Medio Oriente. Un'azione preventiva in Iraq non era necessaria. Conoscevo le informazioni dei Servizi segreti e posso assicurarle che Baghdad non rappresentava un pericolo incombente. Inoltre, la guerra unilaterale ci ha fatto perdere l'appoggio della comunità internazionale, il che ha minato la nostra credibilità nella regione e nel mondo».
Ma cosa rimprovera a Rumsfeld esattamente?
«Abbiamo preparato male l'operazione. Ci siamo affidati a persone poco raccomandabili come Ahmad Chalabi, appartenente al gruppo degli esuli iracheni. Abbiamo dispiegato un numero insufficiente di truppe sul campo, pensando che saremmo stati accolti come liberatori. Rumsfeld e i suoi consiglieri erano convinti che la popolazione avrebbe gettato fiori al passaggio dei nostri soldati. Pensavano che il desiderio di democrazia fosse così forte da far sorgere una nuova società dalle ceneri di quella vecchia. Era una speranza ingenua, una cieca fiducia nelle opinioni dei neoconservatori».
Non sarebbe stato meglio se voi generali aveste protestato prima?
«In una democrazia, l'esercito non può mettere in discussione gli ordini che gli vengono impartiti. Il Congresso ha votato a favore della guerra, Bush non l'ha decisa da solo. ? stato il popolo a decidere. Quando si ordina a un soldato di andare al fronte, lui ci va, è suo dovere. Poi possiamo criticare il modo in cui viene condotta la guerra ma non possiamo sconfessare una decisione presa dal presidente e dal Parlamento. Non toccava ai militari dire che la guerra era un errore».
Lei cosa avrebbe fatto?
«Avrei lasciato lavorare con i tempi necessari gli ispettori dell'Onu che erano tornati in Iraq per verificare il disarmo del Paese. Solo se l'Iraq non avesse collaborato, la comunità internazionale si sarebbe mobilitata per far rispettare il diritto internazionale, anche con la forza».
Gli chiedo se non gli sembri che gli insuccessi degli americani nella lotta contro gli insorti abbiano offuscato l'immagine della loro potenza.
«La missione dei militari era sconfiggere l'esercito di Saddam Hussein e in questo hanno avuto pieno successo. Ma dopo è stato chiesto loro di fare qualcosa per cui non sono preparati» spiega il generale. «Combattere e annientare la Guardia Repubblicana di Saddam Hussein, sì. Ma affrontare una costellazione di gruppi ostili, dalla guerriglia ai terroristi passando per criminali o miliziani è un'altra cosa. Non siamo di fronte a un'insurrezione comune». Fa una pausa e conclude: «La guerra in Iraq ha messo a dura prova il nostro esercito. Il problema è che dobbiamo ricostruire una nazione, senza aver capito come possiamo rimettere in piedi le istituzioni politiche, sociali ed economiche. La missione dei militari non era questa».
Gli faccio notare che, tra le conseguenze dirette dell'avventura irachena, c'è l'attuale difficoltà di Washington nella gestione del dossier nucleare iraniano.
«Credo che nessuno pensi a un'azione militare. L'Iraq sembra aver dissuaso questa amministrazione sull'uso unilaterale della forza. L'Iran si dimostrerà ragionevole, se il Consiglio di sicurezza si muoverà unito su eventuali sanzioni. Sono persiani e sono consapevoli del loro peso politico ma anche dei loro interessi. Dobbiamo tornare a parlare con Teheran». Zinni ha ragione: basterà aspettare poche settimane perché all'inizio di giugno gli Stati Uniti annuncino la loro disponibilità a sedersi a un tavolo di trattative multilaterali con il regime dei mullah, a quasi trent'anni dalla rottura delle relazioni diplomatiche nel 1979.
Nonostante la crisi irachena e la frattura che ha aperto nell'esercito e nella società americana, il generale ostenta una fiducia incrollabile nel Paese che gli ha consentito di raggiungere i massimi vertici della gerarchia militare. Crede nei valori dell'America, ci dice, e nella forza delle idee, più che nell'idea della forza.
«In effetti siamo un impero, ma un impero che si fonda sull'influenza culturale ed economica, non sulla conquista militare. Non siamo l'Impero romano o quello di Napoleone. Siamo un esempio per il resto del mondo e la nostra parte migliore prevarrà».
*? il racconto di un incontro di Lilli Gruber con uno dei generali americani ribelli verso la guerra in Iraq. ? tratto dal diario di viaggio negli Usa della giornalista ed europarlamentare. L?? autrice lo leggerà stasera alle 21 al Teatro Dal Verme di Milano, per la Milanesiana, la manifestazione culturale promossa dalla Provincia e diretta da Elisabetta Sgarbi- pubblicato su l'Unità