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Processo Eternit: amianto, una parola che andava bandita
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di Silvana Mossano*

Processo Eternit: amianto, una parola che andava bandita La parola amianto andava bandita. Nascosta. Cancellata. A metà degli anni ‘70 i rischi si sapevano: fior di scienziati internazionali si erano già espressi sia per quanto riguarda l’asbestosi sia per le patologie cancerogene, tanto per i lavoratori tanto per chi viveva fuori dalle fabbriche. Per continuare a produrre (e i dati dimostrano che in Italia proprio tra gli anni ‘70 e ‘80 si ebbero i maggiori picchi) era meglio non dare troppo nell’occhio.
Qualcuno ha detto che una cosa esiste quando c’è una parola che la qualifichi. Ebbene, togliendo di mezzo la parola «amianto» si tentava di annacquare l’immagine negativa legata a malattie e morti che questa generava. Così nel 1977 fu diramata dall’azienda una direttiva interna secondo cui non si doveva più parlare di «prodotti di amianto-cemento, ma di fibrocemento, nelle comunicazioni interne ed esterne, negli articoli di giornale e nei dépliants».
Ne ha riferito ieri mattina al processo Eternit, contro Louis de Cartier e Stephan Schmidheiny, il dottor Emanuele Lauria, già tecnico dell’Ispettorato del lavoro, poi dell’Arpa e del Centro amianto di Grugliasco, ora in pensione. Una vita intera «a occuparmi esclusivamente di amianto». La relazione, fondata su documenti e perizie («perché gli stabilimenti non ci sono più») e anche su testimonianze rese al processo, è stata oggetto di più richiami da parte del presidente del Tribunale Giuseppe Casalbore che ha insistito perché l’esperto si limitasse agli aspetti tecnici anziché esprimere deduzioni e giudizi.
Non sono però deduzioni alcuni dati che il dottor Lauria ha illustrato sullo stabilimento di Casale: nell’ottobre ‘76, l’Ispettorato del lavoro inviò all’Ufficiale sanitario di Casale una segnalazione in cui avvertiva che da vari reparti si sviluppavano elevate percentuali di polveri di amianto con conseguenti dispersioni all’esterno e grave pregiudizio alla salute degli abitanti della zona. Ha detto Lauria: «L’Ispettorato del Lavoro, lo so per esperienza, di solito si occupa degli ambienti interni agli stabilimenti. Se ha ritenuto di fare questa segnalazione sull’esterno è perché la situazione doveva essere veramente drammatica». E lo dimostra anche il fatto che sempre l’Ispettorato del lavoro, tra il ‘76 e il ‘78, fece ben 13 sopralluoghi con altrettanti verbali contenenti complessivamente 230 prescrizioni, riguardanti principalmente inidoneità degli impianti, pulizie, difese contro le polveri, filtri, oltre al fatto che ai lavoratori con asbestosi non veniva cambiata la mansione, in postazioni meno rischiose», tanto più che a Casale, fino alla chiusura nell’86, furono sempre usati i due tipi di amianto: crisotilo e crocidolite, il temibile amianto blu, indispensabile nella produzione dei tubi. A Casale, oltre ai tubi si producevano anche le lastre. Il dottor Lauria, elencando i diversi prodotti commercializzati da Eternit, ha citato - cosa poco nota - che con l’amianto si fabbricavano anche tessuti e, tra le lastre, anche quelle di foggia speciale «alla toscana», «alla romana», «alla francese», adatte per essere verniciate o smaltate, tanto che ancora oggi sono difficilmente riconoscibili, perché non hanno la colorazione grigia più nota.
I rischi legati alla polverosità, se all’interno aumentavano specialmente durante certe lavorazioni (nel reparto Pressione dove venivano testati i tubi per gli acquedotti o nel Magazzino Po dove si facevano pezzi speciali a mano), all’esterno erano determinati dalla frantumazione all’ex Piemontese (area ceduta in uso da Unicem a Eternit il 1° gennaio ‘78), nei trasferimenti di manufatti e scarti lungo le strade (la via Oggero; il tragitto tra stabilimento e magazzini in piazza d’Armi; direzione discarica Bagna) e negli scarichi delle acque reflue nel fiume («a inizio 1980, da 3 a 4 mila litri al minuto con Ph 12 rispetto al limite massimo della legge Merli di 9,5, e incremento al sabato, giornata di grosse pulizie»).
ma i controlli interni si facevano? «Nella seconda metà degli anni ‘70 sì, con il Sil (Servizio interno per l’ igiene del lavoro, ndr) - ha detto Lauria -, ma erano programmati: un paio di volte all’anno e preannunciati». Che valore potevano avere? «Limitato - secondo il consulente - perché non si facevano mai in condizioni particolari e di maggior rischio, ad esempio quando si rompevano i sacchi o si intasavano i filtri». Ha aggiunto: «Il Sil non è mai stato uno strumento per verificare la salubrità degli ambienti di lavoro nell'interesse dei lavoratori, ma era al servizio della proprietà». Investimenti sulla sicurezza? «Una media di 370 mila lire in capo a ciascun lavoratore: poco; e spesso in queste voci di spesa entravano costi che non c’entravano con la sicurezza».
A Cavagnolo, su cui ha riferito Luca Mingozzi, tecnico Arpa, situazione analoga, con una particolarità: sulla strada su cui si affacciavano i due stabilimenti si facevano operazioni di scarico e carico di amianto e manufatti. Tra le case della gente.

*articolo tratto da La stampa di martedì 19 ottobre

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