Articolo 21 - Editoriali
"Digitale terrestre". Il pluralismo delle canzonette
di Roberto Mastroianni
E' davvero molto istruttiva la lettura del documento appena prodotto dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni in merito alla diffusione di canali televisivi via "digitale terrestre". In sintesi, ne risulta che oggi in Italia siamo più ricchi di informazioni e più garantiti dalle posizioni dominanti in un settore così sensibile, posto che alcune famiglie (probabilmente intorno a 200.000, l'equivalente di un quartiere di Napoli) sono dotate di un decoder capace di ricevere� due canali di musica diffusi sugli schermi televisivi!
Un breve riepilogo. Come si ricorderà , al fine di evitare le conseguenze imposte della Corte costituzionale con sentenza n. 466 del 2002 - da un lato, l'obbligo per una delle reti Mediaset di trasmettere esclusivamente "via satellite", liberando frequenze da attribuire ad altri, dall'altro l'abbandono della risorsa pubblicitaria per una rete Rai - la legge n. 112 del 2004 "Gasparri" ha modificato il sistema di calcolo del numero massimo di canali televisivi consentiti ad ogni operatore. La precedente legge "Maccanico" prevedeva un limite del 20% degli undici canali "analogici" (quelli diffusi con le modalità tradizionali), dunque non più di due a testa, ma aveva acconsentito un periodo transitorio sostanzialmente infinito; per questo veniva bocciata dalla Corte Costituzionale, che pazientemente indicava il 31 dicembre 2003 come termine "certo, definitivo e dunque non eludibile" per le dismissioni previste dalla legge. Immediatamente prima della scadenza del termine un tempestivo decreto legge del 23 dicembre 2003 adottava una fantasiosa interpretazione della sentenza, intendendo la data del 31 dicembre non già come termine finale per il "dimagrimento" dei soggetti in posizione dominante, ma come l'inizio di un nuovo periodo transitorio nel quale sanare l'esistente e puntare sulle virtù miracolose del "digitale terrestre".
A sua volta, la legge Gasparri completava il percorso, prevedendo che il "tetto" del 20% venisse calcolato sul numero complessivo dei programmi televisivi irradiati in ambito nazionale su frequenze terrestri, indifferentemente in tecnica analogica o in tecnica digitale, addirittura includendo nella base di calcolo anche i soggetti che, pur privi di titolo abilitativo, come è il caso di Rete 4 e di una rete di Tele +, hanno continuato a trasmettere in base ad autorizzazioni temporanee o a provvedimenti giudiziari.
Da qui l'obbligo (per le casse della Rai!) di predisporre due blocchi di canali digitali acquisendo frequenze d'altri. Da qui gli incentivi per l'acquisto dei decoder per il digitale terrestre. Insomma, bisognava in fretta dimostrare che la nuova tecnica di diffusione fosse una realtà e non, come in effetti è, un oggetto misterioso. All'Autorità per le comunicazioni veniva richiesto di svolgere, entro il 30 aprile 2004, un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri sulla base di tre parametri "fantasma": in primo luogo, la quota di popolazione "coperta" dalle nuove reti digitali (non inferiore al 50%), a prescindere dall'effettiva fruizione da parte dei cittadini; in secondo luogo, la presenza sul mercato nazionale di decoder a prezzi accessibili; infine, l'effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche. Entro trenta giorni da detto accertamento, all'Autorità era richiesto di inviare una relazione al Governo e alle competenti Commissioni parlamentari per "dar conto dell'accertamento effettuato". In caso di esito negativo, l'Autorità avrebbe potuto adottare provvedimenti molto incisivi, in particolare imponendo il "dimagrimento" dei soggetti in posizione dominante.
Ecco dunque la relazione dell'Autorità , in cui fatte salve alcune (timide) critiche al sistema dal punto di vista dell'effettivo ampliamento del pluralismo, sostanzialmente si sostiene che tutto va bene, essendosi verificate al 30 aprile 2004 tutte e tre le condizioni di legge. In primo luogo, i programmi digitali vengono diffusi in Italia e sono potenzialmente visibili da più del 50% della popolazione. Ma le famiglie che oggi posseggono i decoder sono solo 200.000; non importa, ci spiega l'Autorità , in quanto la legge utilizza il parametro virtuale della copertura, prescindendo dalla reale fruizione dei programmi da parte dei cittadini. In secondo luogo, i decoder sono disponibili nei negozi e sono venduti a prezzi accessibili anche grazie ai contributi statali, ai quali l'Autorità attribuisce un "ruolo determinante": anche qui, sfugge il collegamento tra la presenza dei decoder nei punti vendita e l'incremento del pluralismo delle fonti di informazione. Inoltre, siamo in attesa di sapere dalla Commissione europea se gli incentivi, discriminando altre piattaforme ed in particolare quella satellitare, realizzano un aiuto di Stato, nel qual caso dovranno essere restituiti. In terzo luogo, e qui la situazione si fa, se possibile, ancora più paradossale, le piattaforme digitali messe in piedi in tutta fretta soprattutto da Rai e Mediaset (vale a dire dagli stessi soggetti accusati di dominanza nel mercato) diffondono 21 canali, di cui 13 ripetono totalmente o parzialmente la programmazione già offerta su frequenze analogiche, 8 sono già diffusi via satellite, due canali Rai sono "ancora in fase di predisposizione" e, finalmente, soltanto due sono "di nuova creazione", i programmi musicali Radioitalia e Veejay TV, i quali si prendono il merito di risolvere una questione che si trascina da più di vent'anni, garantendo l'ampliamento del pluralismo dell'informazione!
Sembra uno scherzo ma è così. Ora, è vero che i parametri di legge, come ho già sostenuto su queste pagine, erano (volutamente) così generici ed inconsistenti (e certamente incostituzionali) da rendere quasi scontato questo risultato. Probabilmente, con un atto di coraggio l'Autorità avrebbe potuto interpretarli con un occhio alla Costituzione: se obiettivo dell'intera disciplina è (in teoria) l'effettivo ampliamento delle fonti di informazione a disposizione dei cittadini, come richiesto dalla Corte costituzionale e nel messaggio del Capo dello Stato di rinvio alle Camere, avrebbero dovuto essere esclusi dal calcolo quantomeno i programmi prodotti dalla Rai. Ma il vero problema sta nella legge, che in aperto contrasto con la sentenza della Corte costituzionale del 2002 - che pure si usa a pretesto - pretende che l'aumento del pluralismo possa essere assicurato da canali di nicchia, in gran parte già diffusi gratuitamente via satellite, in concreto visti da un numero ridottissimo di persone. Di certo, lo sviluppo del digitale potrà fornire delle risposte positive. Ma la nuova legge inverte i termini logici della questione, attribuendo al digitale delle virtù che ancora deve dimostrare.
Il tutto configura una patente violazione del principio costituzionale della libertà di informazione e dei trattati internazionali vincolanti l'Italia (in primis la Convenzione europea dei diritti dell'uomo). Come al solito, toccherà alla Corte costituzionale intervenire bocciando la legge Gasparri. E' la terza volta: ma l'importante era guadagnare tempo.
Un breve riepilogo. Come si ricorderà , al fine di evitare le conseguenze imposte della Corte costituzionale con sentenza n. 466 del 2002 - da un lato, l'obbligo per una delle reti Mediaset di trasmettere esclusivamente "via satellite", liberando frequenze da attribuire ad altri, dall'altro l'abbandono della risorsa pubblicitaria per una rete Rai - la legge n. 112 del 2004 "Gasparri" ha modificato il sistema di calcolo del numero massimo di canali televisivi consentiti ad ogni operatore. La precedente legge "Maccanico" prevedeva un limite del 20% degli undici canali "analogici" (quelli diffusi con le modalità tradizionali), dunque non più di due a testa, ma aveva acconsentito un periodo transitorio sostanzialmente infinito; per questo veniva bocciata dalla Corte Costituzionale, che pazientemente indicava il 31 dicembre 2003 come termine "certo, definitivo e dunque non eludibile" per le dismissioni previste dalla legge. Immediatamente prima della scadenza del termine un tempestivo decreto legge del 23 dicembre 2003 adottava una fantasiosa interpretazione della sentenza, intendendo la data del 31 dicembre non già come termine finale per il "dimagrimento" dei soggetti in posizione dominante, ma come l'inizio di un nuovo periodo transitorio nel quale sanare l'esistente e puntare sulle virtù miracolose del "digitale terrestre".
A sua volta, la legge Gasparri completava il percorso, prevedendo che il "tetto" del 20% venisse calcolato sul numero complessivo dei programmi televisivi irradiati in ambito nazionale su frequenze terrestri, indifferentemente in tecnica analogica o in tecnica digitale, addirittura includendo nella base di calcolo anche i soggetti che, pur privi di titolo abilitativo, come è il caso di Rete 4 e di una rete di Tele +, hanno continuato a trasmettere in base ad autorizzazioni temporanee o a provvedimenti giudiziari.
Da qui l'obbligo (per le casse della Rai!) di predisporre due blocchi di canali digitali acquisendo frequenze d'altri. Da qui gli incentivi per l'acquisto dei decoder per il digitale terrestre. Insomma, bisognava in fretta dimostrare che la nuova tecnica di diffusione fosse una realtà e non, come in effetti è, un oggetto misterioso. All'Autorità per le comunicazioni veniva richiesto di svolgere, entro il 30 aprile 2004, un esame della complessiva offerta dei programmi televisivi digitali terrestri sulla base di tre parametri "fantasma": in primo luogo, la quota di popolazione "coperta" dalle nuove reti digitali (non inferiore al 50%), a prescindere dall'effettiva fruizione da parte dei cittadini; in secondo luogo, la presenza sul mercato nazionale di decoder a prezzi accessibili; infine, l'effettiva offerta al pubblico su tali reti anche di programmi diversi da quelli diffusi dalle reti analogiche. Entro trenta giorni da detto accertamento, all'Autorità era richiesto di inviare una relazione al Governo e alle competenti Commissioni parlamentari per "dar conto dell'accertamento effettuato". In caso di esito negativo, l'Autorità avrebbe potuto adottare provvedimenti molto incisivi, in particolare imponendo il "dimagrimento" dei soggetti in posizione dominante.
Ecco dunque la relazione dell'Autorità , in cui fatte salve alcune (timide) critiche al sistema dal punto di vista dell'effettivo ampliamento del pluralismo, sostanzialmente si sostiene che tutto va bene, essendosi verificate al 30 aprile 2004 tutte e tre le condizioni di legge. In primo luogo, i programmi digitali vengono diffusi in Italia e sono potenzialmente visibili da più del 50% della popolazione. Ma le famiglie che oggi posseggono i decoder sono solo 200.000; non importa, ci spiega l'Autorità , in quanto la legge utilizza il parametro virtuale della copertura, prescindendo dalla reale fruizione dei programmi da parte dei cittadini. In secondo luogo, i decoder sono disponibili nei negozi e sono venduti a prezzi accessibili anche grazie ai contributi statali, ai quali l'Autorità attribuisce un "ruolo determinante": anche qui, sfugge il collegamento tra la presenza dei decoder nei punti vendita e l'incremento del pluralismo delle fonti di informazione. Inoltre, siamo in attesa di sapere dalla Commissione europea se gli incentivi, discriminando altre piattaforme ed in particolare quella satellitare, realizzano un aiuto di Stato, nel qual caso dovranno essere restituiti. In terzo luogo, e qui la situazione si fa, se possibile, ancora più paradossale, le piattaforme digitali messe in piedi in tutta fretta soprattutto da Rai e Mediaset (vale a dire dagli stessi soggetti accusati di dominanza nel mercato) diffondono 21 canali, di cui 13 ripetono totalmente o parzialmente la programmazione già offerta su frequenze analogiche, 8 sono già diffusi via satellite, due canali Rai sono "ancora in fase di predisposizione" e, finalmente, soltanto due sono "di nuova creazione", i programmi musicali Radioitalia e Veejay TV, i quali si prendono il merito di risolvere una questione che si trascina da più di vent'anni, garantendo l'ampliamento del pluralismo dell'informazione!
Sembra uno scherzo ma è così. Ora, è vero che i parametri di legge, come ho già sostenuto su queste pagine, erano (volutamente) così generici ed inconsistenti (e certamente incostituzionali) da rendere quasi scontato questo risultato. Probabilmente, con un atto di coraggio l'Autorità avrebbe potuto interpretarli con un occhio alla Costituzione: se obiettivo dell'intera disciplina è (in teoria) l'effettivo ampliamento delle fonti di informazione a disposizione dei cittadini, come richiesto dalla Corte costituzionale e nel messaggio del Capo dello Stato di rinvio alle Camere, avrebbero dovuto essere esclusi dal calcolo quantomeno i programmi prodotti dalla Rai. Ma il vero problema sta nella legge, che in aperto contrasto con la sentenza della Corte costituzionale del 2002 - che pure si usa a pretesto - pretende che l'aumento del pluralismo possa essere assicurato da canali di nicchia, in gran parte già diffusi gratuitamente via satellite, in concreto visti da un numero ridottissimo di persone. Di certo, lo sviluppo del digitale potrà fornire delle risposte positive. Ma la nuova legge inverte i termini logici della questione, attribuendo al digitale delle virtù che ancora deve dimostrare.
Il tutto configura una patente violazione del principio costituzionale della libertà di informazione e dei trattati internazionali vincolanti l'Italia (in primis la Convenzione europea dei diritti dell'uomo). Come al solito, toccherà alla Corte costituzionale intervenire bocciando la legge Gasparri. E' la terza volta: ma l'importante era guadagnare tempo.
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