di Giovanni Valentini
da La Repubblica
NEPPURE in un paese teledipendente come il nostro, dove per molti la "legge dell´audience" rischia di contare più della Costituzione, può passare inosservato "l´imbroglio dell´Auditel" rivelato ieri a Repubblica da una delle famiglie-campione. Anche se dal prossimo mese di agosto il "panel" sarà suddiviso in sei fasce di reddito e istruzione scolastica, per consentire in teoria rilevazioni più precise, in realtà non migliorerà la funzionalità di un sistema che è capace magari di registrare all´alba qualche milione di bambini davanti al video per vedere improbabili cartoni animati oppure folle notturne di casalinghe avvinte dall´ultimo soporifero "talk show" sulla guerra in Iraq o sulla riforma istituzionale. Inaffidabile era e inaffidabile rimane.
Fondata com´è nell´era berlusconiana più sulla televisione che sul lavoro, la Repubblica italiana ha fatto dell´"audience" la sua nuova religione di Stato. L´Auditel è l´anima di un "commercio" che spesso altera la stessa qualità televisiva, senza risparmiare il servizio pubblico. Un totem del consumismo esasperato a cui si immola la virtù nazionale del risparmio, della parsimonia o soltanto della misura.
Oggi, in Italia, tutto si fa per l´audience. Campagne pubblicitarie, bombardamento di spot e minispot, uso e abuso di telepromozioni. � l´orgia degli ascolti televisivi che influenza e condiziona quotidianamente i nostri bisogni, le nostre scelte e i nostri consumi. Una cornucopia, un albero della cuccagna, per un popolo che non-arriva-alla-fine-del-mese, ridotto ormai a disertare perfino i saldi di fine stagione. C´è un contrasto irritante fra la società opulenta, godereccia e spendacciona rappresentata dalla pubblicità televisiva e le condizioni di vita degli italiani. Da una parte, luci e lustrini, sesso a tutto spiano, vacanze meravigliose, auto superveloci; dall´altra, bollette, mutui e tasse da pagare. "Capoccia di champagne, saccoccia di birra", come recita un proverbio romanesco, per dire grandi lussi in testa e pochi soldi in tasca.
Nel segno dell´Auditel, un certo fondamentalismo pubblicitario propina così la sua ideologia, attraverso un modello economico e sociale che non sta né in cielo né in terra. Imbonimento mediatico, più che comunicazione e servizio. Suggestioni ed emozioni, piuttosto che informazioni magari corrette e veritiere.
"Non torno nella tv dell´Auditel", dichiarò il 10 ottobre 2001 quel maestro di televisione che è Renzo Arbore, presentando alla stampa alcuni "speciali" curati per RaiSat. E contestando i dati delle rilevazioni, ricordò che il pubblico televisivo sarebbe composto per il 72,8% da analfabeti, con licenze elementare o media; per il 22,7% da cittadini con diploma superiore e soltanto per il 4,5% da laureati.
Se fosse vera la "favola dell´Auditel", come s´intitola il libro-inchiesta di Roberta Gisotti, in rapporto alla bassa scolarizzazione del nostro paese dovremmo analogamente registrare nelle edicole un record nelle vendite dei giornaletti per bambini e nelle librerie di libricini a fisarmonica da guardare e colorare. Le stesse statistiche raccontano che in una vita media di 70 anni ne passeremmo 11 davanti alla tv. Una droga televisiva di 2 ore e 33 minuti al giorno per i giovani dai 14 ai 24 anni; fino a 5 ore e 44 minuti tra gli anziani oltre i 65 anni. Vale a dire un consumo medio di 3 ore e 50 minuti a testa.
Fatto sta che questi dati si riferiscono al tempo complessivo in cui i televisori delle famiglie-campione restano accesi, anche se il padre sta leggendo il giornale, la moglie parla al telefono, la figlia va in cucina a prendere un bicchier d´acqua e il bambino in bagno a far pipì; ma non al tempo effettivo di visione e di ascolto. Un pubblico di fantasmi, insomma, costretti per sopravvivere a imbrogliare se stessi e il moloch degli ascolti, come rivela la sconcertante testimonianza pubblicata ieri dal nostro giornale.
Non c´è poi da meravigliarsi troppo se alla fine, sotto la dittatura dell´Auditel, abbiamo mandato al governo il "lìder maximo" del regime televisivo e pubblicitario. Né tantomeno che l´Italia berlusconizzata si ritrovi oggi con le pezze al sedere. Questa è la cultura o l´incultura dominante che favorisce al momento il declino nazionale.