di Nello Ajello
da La Repubblica
Le penne conniventi con il regime furono tante, ma solo in parte pagarono: un articolo che apparir su "Nuova storia contemporanea" racconta i coinvolti e i salvati.
INDRO MONTANELLI HA DEFINITO IL CARNEFICE - cioè l´epuratore - «la più bassa sottospecie dell´umanità». Alla vittima - cioè all´ epurato - Vitaliano Brancati dedicò, nel 1944, un racconto struggente, Il vecchio con gli stivali. Da mezzo secolo, storici, politici, giuristi riflettono su quel tentativo di «defascistizzare» il nostro paese. Nella sua Storia dell´epurazione in Italia, edito nel 1999 da Baldini e Castoldi, Romano Canosa ha offerto un quadro delle «sanzioni contro il fascismo», esercitate fra il ?43 e il ?48 in tutti i campi. Il tema ritorna ora in un saggio di Alessandra Bravi, che esce, con il titolo L´epurazione dei giornalisti, nel prossimo numero di «Nuova Storia Contemporanea». Ne emerge la complessa metodologia con la quale la classe dirigente del dopoguerra affrontò il compito di assicurare un´informazione «ripulita» da professionisti compromessi con il regime appena deposto.
Occorre ricordare che l´epurazione era venuta al mondo già un po´ deforme. Colui che ne fu il fondatore, Pietro Badoglio, mancava di titoli validi per ergersi a moralista. Impressionava ascoltare i suoi inviti veementi («Bisogna colpire per epurare»), o le sue rampogne contro «i vermi più luridi del letamaio fascista». Altri epuratori più titolati cominciavano invece a indicare posologia e «modo d´impiego» del disinfettante. Tutti, da Carlo Sforza, primo Alto Commissario dell´Epurazione, a Mauro Scoccimarro, Commissario aggiunto, da Pietro Nenni ad Adolfo Omodeo, capo di un comitato di epurazione universitaria, si trovarono subito d´accordo su un principio meritorio quanto ovvio: partire dall´alto, non infierire sui «piccoli».
Forse queste personalità non intravidero un pericolo altrettanto grave, che il saggio della Bravi illustra a dovere: l´iperbolico groviglio degli organismi cui sarebbe stato affidato il compito. Attraverso l´analisi di documenti ora consultabili presso l´Archivio Centrale dello Stato, l´autrice sembra avere scoperto proprio qui il vero perché di «un fallimento che non sembrava annunciato». Fu Jonathan Swift, se non ricordo male, a immaginare un edificio a tal punto perfetto, così maniacalmente studiato per pesi e contrappesi, che bastava un uccellino che si posasse su una sua merlatura per farlo crollare. Così nacque, così si dissolse l´epurazione nei giornali.
Cerchiamo di descrivere, reduci dal saggio della Bravi, il mastodonte epurativo. Svetta, al suo vertice, l´Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo, di nomina governativa. Ad esso fanno capo tre «soggetti»: l´Ufficio Albi professionali, la Federazione della Stampa Italiana e l´Ufficio Stampa della Commissione Alleata di Controllo. La Fnsi designa i membri della commissione unica - incaricata di ??rivedere´´ l´Albo - e lo fa d´accordo con il Sottosegretariato per la Stampa, delegato dal Ministro della Giustizia; sarà la commissione unica a nominare le varie commissioni locali di epurazione. La nomina dei «commissari» deve essere confermata sia dal Ministro della Giustizia che dall´alto Commissario, capo a sua volta di un ufficio istruttorio, di un «ufficio commissioni» e di un ufficio polizia.
Se il lettore non è in preda alla vertigine, presti attenzione alla svolta successiva: cioè all´ingresso in campo delle «commissioni aziendali», nate all´interno dei giornali. Hanno il compito di affiancare l´attività dell´Alto Commissariato e delle commissioni di prima istanza. Purtroppo, nota l´autrice, «della collaborazione tra questi soggetti» risultano poche tracce. C´è, in generale, «scarso coordinamento». Ciascuno tira l´Epurazione dalla sua parte. La Federazione della stampa vuol concludere le pratiche in maniera rapida e indolore. L´Alto Commissariato mira a «coniugare indulgenza e fermezza», e critica l´eccessiva benevolenza che si tende ad elargire anche ad «uomini moralmente guasti e screditati» (sono parole di Ruggero Grieco, Alto Commissario dal gennaio al luglio 1945). Dalle commissioni redazionali esala una pulsione di difesa corporativa.
Volano denunce anonime. I giornalisti indagati, cercano testimonianze a loro favore da parte di esponenti dell´antifascismo. L´autrice cita l´esempio di Giuseppe Leonardi, collaboratore del Popolo d´Italia, che esibì attestati di Giulio Andreotti e di Achille Grandi, segretario generale della Cgil. Ma viene qui utile ricordare l´energia con la quale Giovanni Ansaldo, il «giornalista di Ciano», andava in cerca di personalità che potessero dargli atto della sua iniziale opposizione al regime (durata fino al 1926), del suo finale rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò e della propaganda svolta in questo senso fra i compagni di prigionia durante due anni di deportazione in Polonia e in Germania. I suoi diari intitolati Anni freddi (Il Mulino, 2003), rievocano questi tentativi: il deputato socialista Paolo Rossi, genovese come Ansaldo, penalista di grido, avrebbe accettato l´incarico di difendere l´ex direttore del Telegrafo e commentatore radiofonico dei «Fatti del giorno», se non ne fosse stato recisamente sconsigliato dalla Federazione ligure del suo partito. Spicca inoltre, nelle lettere di Ansaldo alla sorella Maria, l´ipotesi di «fare un passo presso Parri ed eventualmente presso Bauer», altro dirigente del Partito d´Azione. Nel giugno del ?46, dal carcere dove era stato rinchiuso nove mesi prima «per avere contribuito a sostenere il regime fascista con atti rilevanti», Ansaldo lamentava di vedere che «a Roma Appelius e Spampanato», suoi colleghi più fascisti di lui, «sono già stati messi in libertà».
In fondo, non aveva torto. Ma questa ingiustizia durerà poco. Sempre in virtù dell´amnistia promossa dal Guardasigilli Palmiro Togliatti, Ansaldo verrà prosciolto a fine giugno. Nel 1950 otterrà, con la carica di direttore del Mattino, una riabilitazione sovrabbondante.
Nella sua Stampa italiana del dopoguerra, Paolo Murialdi ha parlato del «seppellimento dell´epurazione». Ed è difficile pensarla diversamente se si riflette sul destino giudiziario di giornalisti «fascistissimi», da Ermanno Amicucci a Mario Appelius, da Concetto Pettinato a Telesio Interlandi, da Bruno Spampanato ad Ezio Maria Gray. Amicucci, direttore del Corriere sotto Salò, è l´unico ad essere condannato a morte, ma la Cassazione riforma la sentenza: nel 47 egli recupera la libertà. Gli altri si gioveranno dell´amnistia. Nel ?53 Spampanato, ex direttore del Messaggero e bardo della Repubblica Sociale, verrà eletto deputato per il Msi.
Di fronte a simili esempi sembra impallidire la vicenda di Luigi Barzini junior, riferita da Alessandra Bravi. Qui l´interesse è, tuttavia, di altro tipo: sociologico, di costume, di temperie politica. Barzini era stato arrestato nell´aprile del 1940 per aver criticato «in modo aspro l´atteggiamento del fascismo e del suo capo», e poi mandato al confino ad Amalfi. Per difendersi, aveva redatto una ??memoria´´ in cui sottolineava le sue benemerenze fasciste, esibendo addirittura certi trascorsi di spia a vantaggio del regime. Adesso, questo episodio veniva utilizzato a rovescio, cioè a suo carico. Di fronte alla commissione dell´Epurazione, Barzini presentò le affermazioni contenute in quel suo scritto come un espediente interamente inventato per farla franca. Come non credergli? A sorreggere Barzini c´erano comunque garanti d´eccezione, da Ivanoe Bonomi ad Adolfo Tino.
Il rinnovamento dei quadri giornalistici non ci fu. Quasi mai si riuscì a punire chi, servendo il fascismo fino al suo epilogo, aveva scelto, «consapevolmente, la strada dell´odio, della persecuzione e della vendetta». Sono parole di Mario Pannunzio, componente della Commissione unica per l´Epurazione (le riporta Murialdi nel suo libro già citato). Giustizia non si fece. «Un´epurazione», osserva a un certo punto Alessandra Bravi, «che avrebbe dovuto creare una categoria di giornalisti ex novo», al contrario «ripristinò la vecchia evitando traumi».