di Marco Calamai
Gli â??elettori hanno bisogno di sapere se Kerry sarebbe stato favorevole allâ??intervento anche se fosse stato evidente che in Iraq non vi erano le armi di distruzione di massaâ?. La questione è stata posta con forza in un editoriale del New York Times poche ore prima dellâ??atteso discorso del leader democratico alla Convenzione nazionale che lo ha nominato trionfalmente candidato alle prossime elezioni presidenziali. Affermando che â?? lâ??America lavorerà con i suoi alleati e farà la guerra solo se si troverà in una situazione di rischio realeâ? il rivale di Bush ha implicitamente risposto allâ??autorevole quotidiano americano, da tempo critico nei riguardi dellâ??attuale Amministrazione la quale ha invece difeso lâ??intervento, anche quando è diventato palese che quelle armi non câ??erano. La domanda, non del New York Times ma dellâ??opinione pubblica mondiale, a cui invece Kerry non ha invece risposto è cosa faranno gli Stati Uniti in Iraq se i democratici vinceranno quelle che ormai molti considerano come le più importanti elezioni presidenziali degli ultimi decenni. Eâ?? prevedibile, a questo riguardo, che, in caso di vittoria, la strategia multilaterale del candidato democratico spingerà al massimo lâ??acceleratore verso una gestione in prima persona della crisi irachena da parte dellâ??ONU, e cercherà al tempo stesso di convincere le medie potenze che si sono opposte allâ??intervento (Francia, Germania, Russia, Cina) a giocare un ruolo attivo nel sostegno alla transizione politica irachena. Ma, ecco la vera domanda, è realisticamente possibile una vera svolta in Iraq senza il ritiro di quei circa 140 mila soldati americani circa senza i quali lâ??attuale governo fantoccio (con un primo ministro che è stato per anni un uomo della CIA) di Baghdad non sarebbe in grado - come dimostrano ancora una volta i morti e i feriti di questi giorni - di resistere agli attacchi della guerriglia e del terrorismo? Una situazione così spaventosa che rende per ora impossibile alle Nazioni Unite di entrare in Iraq (perché la loro immagine verrebbe sovrapposta a quella degli americani invasori) e di partecipare attivamente alla transizione così come è stato stabilito, paradosso dei paradossi, nella Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dellâ??8 giugno. E che rischia di compromettere il percorso (la nomina di una Assemblea nazionale con limitati poteri parlamentari, prevista per la fine di luglio, è già slittata per lâ??opposizione dei gruppi politici contrari alla occupazione) che dovrebbe portare, entro il gennaio del 2005, alle elezioni politiche generali. Diviene sempre più evidente, ormai, che il fallimento della strategia dellâ??estrema destra americana che tanto ha influito su Bush dopo il terribile trauma dellâ??11 settembre, rischia di trasformarsi in un disastro storico per la superpotenza globale. Un disastro che verrà sfruttato dalle componenti più fanatiche ed intolleranti dellâ??estremismo islamico per bloccare, come appunto sta accadendo in Iraq, i tentativi di quelle forze, politiche e religiose, che dallâ??interno si battono per democratizzare il mondo arabo e musulmano, nel rispetto della sovranità , dei diritti umani e della giustizia sociale. Il punto è che Kerry, al di là delle sue personali convinzioni, non può permettersi di parlare di ritiro dallâ??Iraq come già fece ai tempi del Vietnam. Se lo facesse, Bush avrebbe gioco facile nellâ??accusarlo di disfattismo pacifista nei riguardi della minaccia terrorista e molto probabilmente Kerry perderebbe le elezioni. Ecco perché resta cruciale lâ??impegno per il ritiro delle truppe dallâ??Iraq da parte di quei governi, come quello italiano, che hanno passivamente ubbidito agli ordini del loro â??padre-padroneâ?. Lâ??unico modo per aiutare Kerry dallâ??esterno, a questo punto, è quello di continuare ad opporsi, senza tentennamenti e ambiguità , alla guerra scellerata di Bush.