Articolo 21 - ESTERI
Erdogan: non c’è stabilità senza riforme
di Lorenzo Trombetta
La Turchia è interessata alla stabilità della Siria così come lo sono l’Iran, l’Arabia Saudita e Israele. A differenza di questi tre Paesi, il gigante dell’Anatolia, che con il suo vicino arabo condivide 822 km di frontiera, ha però in queste settimane più volte e pubblicamente invitato il presidente siriano Bashar al-Assad a intraprendere “adesso, e non dopo” un vero cammino di riforme politiche. Dall’inizio delle proteste popolari anti-regime che da metà marzo stanno scuotendo la Siria per la prima volta da decenni, il premier turco Recep Tayyip Erdogan si è intrattenuto al telefono con Assad per ben due volte. Ieri, ha addirittura inviato a Damasco il suo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu per una visita “a sorpresa”.
Nel comunicato dell’agenzia ufficiale Sana si legge il cuore del messaggio turco alla Siria: “la Turchia ha ribadito la sua disponibilità a fornire tutto l’aiuto necessario e la sua esperienza per velocizzare queste riforme”. Il 29 marzo scorso, interpellato dal quotidiano turco Hurriyet sulla “crisi siriana”, Ersat Hurmuzlu, consigliere del presidente Abdullah Gul, aveva affermato: “Attendere che le proteste finiscano per avviare le riforme è un approccio sbagliato. Le riforme necessarie vanno fatte ora, non dopo. E i leader devono mostrare coraggio”.
La Turchia, che già nella questione tunisina, egiziana e yemenita ha invitato esplicitamente i rispettivi capi di Stato ad “ascoltare le richieste del popolo”, in Siria è assai più coinvolta. E non solo come emergente partner economico-commerciale, le cui merci stanno penetrando sempre più il mercato siriano. Ma anche come influente attore politico regionale, che a Damasco potrebbe servire come solida sponda amica per bilanciare la sua tradizionale dipendenza strategica dall’alleato iraniano.
“La stabilità del sistema è importante per noi quanto lo sono le richieste del popolo siriano”, aveva detto Hurmuzlu, consigliere di Gul. E’ qui la differenza sostanziale dell’approccio turco da quello saudita, iraniano o israeliano, tutti attori estremamente preoccupati per un’eventuale destabilizzazione dello statu quo regionale a partire dalla Siria. In base ai propri interessi nazionali e regionali, Riyad, Teheran e Tel Aviv appoggiano, indirettamente o direttamente, il regime di Damasco così come la scelta, adottata finora, di reprimpere la mobilitazione e ignorare di fatto le principali richieste dei manifestanti.
Nell’ottica del governo di Ankara, che spera di ampliare la propria influenza positiva commerciale e politica e che da mesi promuove una politica regionale basata sulla “risoluzione dei problemi” piuttosto che sulla loro radicalizzazione, la stabilità del sistema siriano risiede anche nella soddisfazione dei siriani stessi. E se è vero che dall’inizio delle proteste a Damasco e nelle altre città del paese si registra un calo significativo degli investimenti esteri e degli acquisti dei beni al dettaglio, la posta in gioco per la Turchia va ben oltre la possibilità di vendere i propri prodotti agli acquirenti siriani.
Su tutto emerge la delicata questione curda: la comunità non araba vive in maggioranza nelle regioni settentrionali e nord-orientali al confine proprio con la Turchia. Oltre 100.000 di loro da 49 anni sono privati del diritto di cittadinanza. Anche per questo, per la prima volta dall’inizio delle proteste, i curdi di Siria della regione di Qamishli, ricca di risorse energetiche, si erano uniti venerdì scorso alla mobilitazione anti-regime. La loro era stata una marcia pacifica e i loro slogan invocavano “libertà” e “dignità”, non ancora “la caduta del regime”. Un’eventuale nuova sollevazione dei curdi siriani potrebbe però avere serie ripercussioni anche sulla “sicurezza” del vicino turco. Ecco, anche, perché Ankara mette fretta a Damasco. “In Turchia abbiamo commesso errori ma poi abbiamo fatto riforme. Prima di cambiare le leggi, abbiamo cambiato visione”, aveva affermato Hurmuzlu, consigliere del presidente turco
Nel comunicato dell’agenzia ufficiale Sana si legge il cuore del messaggio turco alla Siria: “la Turchia ha ribadito la sua disponibilità a fornire tutto l’aiuto necessario e la sua esperienza per velocizzare queste riforme”. Il 29 marzo scorso, interpellato dal quotidiano turco Hurriyet sulla “crisi siriana”, Ersat Hurmuzlu, consigliere del presidente Abdullah Gul, aveva affermato: “Attendere che le proteste finiscano per avviare le riforme è un approccio sbagliato. Le riforme necessarie vanno fatte ora, non dopo. E i leader devono mostrare coraggio”.
La Turchia, che già nella questione tunisina, egiziana e yemenita ha invitato esplicitamente i rispettivi capi di Stato ad “ascoltare le richieste del popolo”, in Siria è assai più coinvolta. E non solo come emergente partner economico-commerciale, le cui merci stanno penetrando sempre più il mercato siriano. Ma anche come influente attore politico regionale, che a Damasco potrebbe servire come solida sponda amica per bilanciare la sua tradizionale dipendenza strategica dall’alleato iraniano.
“La stabilità del sistema è importante per noi quanto lo sono le richieste del popolo siriano”, aveva detto Hurmuzlu, consigliere di Gul. E’ qui la differenza sostanziale dell’approccio turco da quello saudita, iraniano o israeliano, tutti attori estremamente preoccupati per un’eventuale destabilizzazione dello statu quo regionale a partire dalla Siria. In base ai propri interessi nazionali e regionali, Riyad, Teheran e Tel Aviv appoggiano, indirettamente o direttamente, il regime di Damasco così come la scelta, adottata finora, di reprimpere la mobilitazione e ignorare di fatto le principali richieste dei manifestanti.
Nell’ottica del governo di Ankara, che spera di ampliare la propria influenza positiva commerciale e politica e che da mesi promuove una politica regionale basata sulla “risoluzione dei problemi” piuttosto che sulla loro radicalizzazione, la stabilità del sistema siriano risiede anche nella soddisfazione dei siriani stessi. E se è vero che dall’inizio delle proteste a Damasco e nelle altre città del paese si registra un calo significativo degli investimenti esteri e degli acquisti dei beni al dettaglio, la posta in gioco per la Turchia va ben oltre la possibilità di vendere i propri prodotti agli acquirenti siriani.
Su tutto emerge la delicata questione curda: la comunità non araba vive in maggioranza nelle regioni settentrionali e nord-orientali al confine proprio con la Turchia. Oltre 100.000 di loro da 49 anni sono privati del diritto di cittadinanza. Anche per questo, per la prima volta dall’inizio delle proteste, i curdi di Siria della regione di Qamishli, ricca di risorse energetiche, si erano uniti venerdì scorso alla mobilitazione anti-regime. La loro era stata una marcia pacifica e i loro slogan invocavano “libertà” e “dignità”, non ancora “la caduta del regime”. Un’eventuale nuova sollevazione dei curdi siriani potrebbe però avere serie ripercussioni anche sulla “sicurezza” del vicino turco. Ecco, anche, perché Ankara mette fretta a Damasco. “In Turchia abbiamo commesso errori ma poi abbiamo fatto riforme. Prima di cambiare le leggi, abbiamo cambiato visione”, aveva affermato Hurmuzlu, consigliere del presidente turco
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