Un libro del costituzionalista Michele Ainis sulla perdita di libertà nelle società complesse
da L'Unità
Chi potrebbe negare che il «secolo breve», il XX, è stato anche e soprattutto il secolo dei diritti umani? Quei diritti, solennemente proclamati con le rivoluzioni della fine del settecento e con le costituzioni dell’ottocento, rimasti però patrimonio di pochi privilegiati nello Stato liberale borghese, hanno intrapreso, sia pure tra lotte e tragedie immani, la strada della universalità. La loro conquista da parte delle classi lavoratrici dell’occidente prima, il duro e lento allargamento alle altre aree del mondo poi, sono stati gli assi portanti della storia Novecento. La consapevolezza del legame intrinseco tra diritti e natura umana (o, come spesso scrivono i testi costituzionali «dignità umana») è una acquisizione che ci appare irrinunciabile. Se mai, si può discutere sui mezzi attraverso i quali conseguire l’obbiettivo della effettiva universalizzazione dei diritti, dibattendo sulla possibilità di concepire una «guerra giusta». Oppure si può mettere in dubbio la coessenzialità dei diritti alla natura umana, pretendendone l’estensione a ogni essere vivente, anche agli animali, come fanno le Costituzioni tedesca e svizzera. Si può criticamente riflettere sulla ipocrisia dell’occidente, teso a garantire i diritti per i «suoi» cittadini, a spese di ampie e dolenti porzioni di umanità. E persino sulla capacità dell’occidente medesimo ad assicurare, al suo interno, la effettività di molti diritti, come quelli sociali, spesso insidiati da politiche pubbliche neoliberiste.
Fino a poco tempo fa ci pareva impossibile però mettere in discussione la prospettiva di sempre più «magnifiche sorti e progressive» per i diritti umani. La tendenza a un continuo progresso, sviluppo, crescita. Anche il XXI secolo ci sembrava destinato a essere il secolo dei diritti, delle loro garanzie ed effettività, forse ancor più di quello che l’ha preceduto. Poi c’è stato l’11 settembre, e le nostre certezze sono state messe in pericolo. La reazione di molti paesi occidentali, non solo degli Stati Uniti, ma anche del Regno Unito o del Canada, ha prodotto drastiche limitazioni dei diritti, in nome della «sicurezza» e della lotta al terrorismo. C’è stata Guantanamo, con i suoi prigionieri senza giudici e senza processi. Ci sono state le torture del carcere di Bagdad, documentate da foto inimmaginabili solo pochi anni fa. Una imprevista battuta d’arresto?
Il libro di Michele Ainis da poco pubblicato da Rizzoli (dal significativo titolo Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti, pp. 391, euro 18,00)
ci mostra che non si tratta di una semplice parentesi. Ma di un episodio di un processo assai più vasto, che ha poco a che vedere con Bin Laden e con la guerra in Iraq. Con lucido pessimismo, Ainis ci dice che, al di là delle proclamazioni, delle Dichiarazioni, delle Costituzioni, dei tribunali e delle Corti, l’occidente non è mai stato in grado di garantire una effettiva universalità dei diritti, neppure al suo interno. Da questo punto di vista, il sottotitolo del libro è limitante, se non fuorviante: «come gli italiani stanno perdendo i loro diritti», afferma. Ma Ainis non si occupa solo degli italiani, estendendo le sue considerazioni a tutti i paesi occidentali, presunta «patria» dei diritti. E per dirci che non si può perdere quel che non si ha.
Il libro è costruito sulla base di categorie di soggetti, elencate in ordine alfabetico. Si va dagli «amanti» e gli «anziani» agli «spiati» e ai «trapiantati», passando per i «disabili», i «folli», gli «immigrati» e tanti altri ancora. Con la consapevolezza che nella nostra epoca, in quello che i giuristi sono soliti chiamare «Stato pluralista», non esiste più il «popolo» come unità, come espressione delle nazione. Certo, le costituzioni continuano a parlarne. Pensiamo a quella italiana, il cui art. 1 esordisce proprio affermando che «la sovranità appartiene al popolo». Ma è ormai una finzione. Non esiste più «un» popolo, ma esistono soggetti che si qualificano, di volta in volta, per il loro status, per l’interesse e la posizione di cui si fanno portatori, in quel singolo momento. E ogni singolo individuo ha mille facce e può appartenere al contempo a tante categorie diverse. Non una società di eguali, ma di diseguali, dove ognuno reclama un trattamento diverso in base al proprio status. L’autore ci mostra la complessità delle nostre società e dei nostri Stati, chiamati a tenere insieme soggetti tanto diversi. E che intendono rimanere tali. E ci mostra che status apparentemente iperprotetti in realtà sono fonte di debolezza e di discriminazione per i loro titolari. Ci ricorda che l’occidente opulento che si proclama paladino dei diritti non è stato capace di approntare garanzie sufficienti per molti dei suoi cittadini. Da questo punto di vista, il libro di Ainis fa venire in mente un episodio recente, altrettanto significativo. Nel saluto al presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky, alla vigilia della scadenza del suo mandato, lo scorso 6 luglio, il giudice costituzionale Valerio Onida ricordava come lo stesso Zagrebelsky si fosse a volte scherzosamente lamentato di essersi occupato di situazioni e soggetti in vario modo atipici: di minoranze religiose e linguistiche, di persone colpite da malattie per essersi sottoposte a trasfusioni e vaccinazioni, di bestemmiatori, di figli e genitori incestuosi, di obiettori di coscienza, di detenuti. Soggetti rispetto ai quali il legislatore non ha assicurato le garanzie imposte dalla Costituzione, e per i quali la Corte costituzionale, (viva voce della Costituzione come tanti anni fa ebbe a dire Calamandrei) ha rappresentato l’ultima risorsa.
Sono quegli stessi soggetti ai quali è dedicato il libro di Ainis. Che, però, va oltre. Non si limita a prendere in esame le decisioni dei giudici, neppure di quelli costituzionali. L’analisi, lucida e spietata, poco consueta per un costituzionalista, è condotta non attraverso il richiamo di norme o sentenze, ma per mezzo delle statistiche e dei fatti, e anche tramite il racconto di singole vicende umane, spesso attinte dalla stampa periodica. Quel che preme è l’effettività. Il confronto tra le solenni proclamazioni da una parte, le cifre e la realtà dall’altra, è impietoso.
La necessità di una riflessione sullo «stato dei diritti», in definitiva, è ben precedente all’11 settembre e deriva non da risposte esagerate a vicende esterne ed eccezionali, ma dalla stessa configurazione assunta dallo Stato democratico in occidente. Capace, sempre più spesso, di parlare soltanto a nome della maggioranza, e incapace di garantire i diritti di tutti i suoi cittadini. Ripristinare le «libertà negate» è la improba sfida che attende i paesi occidentali nel XXI secolo.