di Bianca La Rocca
Il patto nazionale antiracket deve diventare uno strumento per affermare i principi di un’antimafia delle convenienze e delle opportunità. Si è svolta nei giorni scorsi, presso la prestigiosa sala Di Liegro della Provincia di Roma, la I Assemblea nazionale della Rete per la Legalità. Un incontro di grande importanza per il coordinamento delle associazioni antiracket e antiusura costituitosi il 21 settembre scorso a Roma, in occasione del No Usura Day, che ha rappresentato un ulteriore importante tappa del percorso intrapreso dalle decine di associazioni che aderiscono alla Rete, diventata nel giro di pochi mesi, il più vasto coordinamento nazionale operante su tutto il territorio nazionale.
Assemblea molto partecipata. Presenti all’incontro associazioni e familiari di vittime di mafia, così come rappresentanti delle associazioni di categoria, esponenti delle Istituzioni e del mondo dell’informazione. Abbiamo chiesto a Lorenzo Diana, coordinatore nazionale della Rete per la Legalità, di trarre un bilancio di questa giornata di confronto e dibattito aperto a tutti, partendo proprio dalla proposta del “patto nazionale antiracket”, lanciato nella relazione introduttiva e ripreso da tutti gli intervenuti.
Spieghiamo meglio: cosa è il “patto nazionale antiracket” di cui la Rete per la Legalità si fa promotrice chiedendo al Ministro dell’Interno Roberto Maroni l’apertura di un tavolo di confronto?
Partirei con lo spiegare bene cosa sono i fenomeni del racket e dell’usura oggi e come incidono pesantemente sull’economia del Paese e su centinaia di migliaia di imprenditori. Il peso del racket, soprattutto in questo periodo di pesante crisi economica, è diventato sempre più intollerabile. Un fenomeno che riguarda almeno un milione di imprenditori sui circa cinque milioni che vi sono in Italia. Malgrado questo, le denunce sono a dir poco irrisorie, 5000-6000 all’anno. Secondo la relazione della Dia appena 2365 nel primo semestre del 2010, un trend che se confermato nel secondo semestre, si assesterà a meno di 5000 denunce nell’ultimo anno, per non parlare dell’usura in cui si contano appena 350 denunce. Oggi a denunciare il racket in Italia non è nemmeno uno su cento imprenditori toccati. Questi numeri sono un campanello di allarme forte. Di fatto, il fenomeno estorsivo, malgrado l’ondata di arresti e il sequestro di patrimoni mafiosi, continua a mantenere inalterato il suo peso e la sua diffusione sul territorio.
Perché, secondo te, accade questo?
Per vari ordini di fattori. Prima di tutto il pizzo, da sempre strumento di controllo e di visibilità del potere mafioso e camorristico sul territorio, non si interrompe con l’arresto del capoclan, ma continua ad essere esercitato dalle seconde e terze file anche dopo gli arresti delle prime file dei clan. Del resto è stato dimostrato come, diversi capiclan, attraverso gli espedienti più fantasiosi, abbiano continuato a impartire ordini al proprio gruppo anche da dietro alle sbarre. Agli arresti dei mafiosi, quindi, non corrisponde la fine delle estorsioni nei loro territori ed anche il rafforzamento dei presidi delle Forze dell’Ordine o militari, pur importante per dimostrare la presenza dello Stato e contrastare la criminalità, non può essere risolutivo di fronte alla ritrosia dell’imprenditore a denunciare.
Quindi, i continui appelli alla denuncia rimangono lettera morta?
Lo dimostrano i numeri. E, del resto, non possiamo gioire se abbiamo un punto di percentuale in più nel numero delle denunce. Te e Lino Busà sapete bene e lo scrivete ogni anno nel Rapporto di Sos Impresa Le mani della criminalità sulle imprese, che il racket non si esercita esclusivamente con la riscossione del pizzo, ma anche attraverso l’imposizione di merci e di servizi, dalle ditte di autotrasporto alla distribuzione, di personale fidato che controlla, da vicino, l’attività dell’azienda, del “cavallo di ritorno” soprattutto nelle aziende agricole, fino a garantire una sorta di “tranquillità” all’imprenditore. E non solo dal rischio di attentati, ma anche da eventuali “controlli”, ad esempio nei cantieri edili. Per non parlare del fenomeno usuraio, in preoccupante crescita, ma che garantisce alle imprese in difficoltà il denaro liquido necessario per portare avanti l’attività, per poi determinarne il controllo totale da parte dei clan. A fronte di tutto ciò dobbiamo chiederci: è conveniente per un imprenditore denunciare? Come possiamo convincerlo ad abbandonare la “protezione” mafiosa per passare dalla parte dello Stato? Da qui la nostra proposta: sediamoci intorno a un tavolo e sottoscriviamo un “patto nazionale antiracket”.
Quanto ha inciso la crisi economica su questa situazione?
Moltissimo. La Mafia Spa è, ormai, una grande holding criminale con un fatturato di oltre 135 miliardi euro. E’ un vero e proprio agente economico in grado di inquinare l’intera economia italiana, al Sud come al Nord. Abbiamo per troppo tempo sottovalutato il rischio di espansione dell’economia mafiosa e l’attuale crisi economica non ha fatto altro che aumentarne il potere di condizionamento. Per questo ritengo che vi sia bisogno di nuovi strumenti di lotta contro il racket e l’usura. Ne va della tenuta dell’intero Sistema Paese e il “patto antiracket” è un contributo in questo senso.
Il “patto” in che modo garantirebbe l’imprenditore costretto a convivere con le mafie?
Come Rete per la Legalità chiediamo al Ministro dell’Interno, di convocare un tavolo di confronto tra le associazioni antiracket e antiusura, le associazioni datoriali, le Prefetture e le Forze dell’Ordine che porti alla sottoscrizione di un accordo in cui ognuno ci mette qualcosa di proprio. Le associazioni datoriali s’impegnano a convincere i propri associati a denunciare i fenomeni estorsivi, pena l’espulsione, come già fa Confindustria in Sicilia, alle associazioni antiracket presenti sul territorio ad accompagnare e a sostenere la vittima al momento della denuncia e durante tutto l’iter processuale e allo Stato di intervenire riconoscendo fattivamente la collaborazione delle imprese nella lotta alle mafie, magari modificando la legge sugli appalti e prevedendo la concessione di quote di mercato alle imprese che si sono opposte al racket.
Non rischiamo di firmare l’ennesimo protocollo che, poi, come sappiamo bene rimane un appello alle buone intenzioni, cui non segue nulla di concreto?
E’ proprio questo il punto dolente e su cui, con il “patto antiracket”, vogliamo e dobbiamo compiere quel salto di qualità di cui il Paese ha bisogno. Un mero appello ai principi dell’etica, seppure importante, ormai non è più sufficiente, anzi rischia di ritorcersi contro. Sappiamo bene che chi denuncia, oggi, si trova in uno stato di vera difficoltà. Perde commesse e clienti, viene abbandonato a se stesso, non riesce più a svolgere la propria attività e solo perché si è comportato da cittadino onesto. Da qui la mancanza di denunce e una sostanziale sfiducia nei confronti dello Stato. Dobbiamo ribaltare il concetto e affermare con maggiore forza i principi di un’antimafia delle convenienze e delle opportunità. Solo quando imprenditori, commercianti, professionisti si convinceranno che stare dalla parte della legalità è conveniente e offre vere opportunità di riscatto noi vedremo salire il numero delle denunce dalle poche migliaia di oggi, alle decine e spero centinaia di migliaia di domani. Ma per riuscirci dobbiamo impegnarci tutti e lavorare a questo obiettivo. Solo a questo punto potremmo dire di avere sconfitto il cancro della mafia e di vivere in un Paese normale.
In altri termini, dobbiamo ripensare gli strumenti di lotta alla criminalità?
Sì, rendendoli più efficaci. Vorrei aggiungere anche un’altra cosa: non partiamo da zero. In questi anni si sono imposte nel territorio molte associazioni antiracket che in territori difficili, come alcune zone della Campania o della Sicilia, hanno fatto un lavoro coraggioso ed encomiabile, che hanno prodotto decine di arresti. Partiamo da questo patrimonio, rendiamolo nazionale. Lo Stato s’impegni a valorizzarlo in tutti i suoi aspetti. Offra il suo contributo visibile, penso ad una sorta di “bollino di garanzia” che renda visibile l’adesione e non solo per rassicurare i consumatori e i cittadini, ma anche per spaventare le mafie e per dimostrare che opporsi alla criminalità è un’opportunità in più per tutti i cittadini onesti, non un sacrificio insostenibile di pochi.
A chi critica queste proposte affermando che si immetterebbero degli squilibri tra imprenditori sottoposti al racket e tutti gli altri, cosa rispondi?
Gli imprenditori onesti che hanno la possibilità di agire su un mercato libero dalla concorrenza mafiosa non corrono alcun rischio di “declassamento”, anzi vedrebbero aumentare le possibilità di prevenire l’inquinamento del tessuto economico. Del resto, se parliamo di circa un milione di imprenditori che devono convivere o scendere a patti con la criminalità organizzata ci troviamo di fronte ad una minoranza ben consistente. D’altra parte anche la proposta del sen. Luigi De Sena, Vice Presidente della Commissione antimafia, di modificare la legge sui sub-appalti per favorire gli imprenditori che hanno denunciato il racket, così come la proposta di una white list per le imprese dello stesso Ministro Maroni vanno nella stessa direzione, che lo ripeto, può essere sintetizzato in un semplice concetto: l’antimafia delle convenienze e delle opportunità.
Le prossime tappe?
Una e la più importante. Spero che il Ministro risponda al più presto e positivamente alla nostra proposta, diciamo entro agosto, in modo da poter intitolare il “patto antiracket” a Libero Grassi, di cui quest’anno ricorre il ventennale della scomparsa. Tutto il movimento antiracket deve molto al coraggio dimostrato e di cui ha pagato il prezzo più alto. Il patto nazionale antiracket deve mirare a garantire la libertà d’impresa, quella per la quale morì Libero Grassi.I l patto vuole essere anche un contributo alla ripresa economica italiana. Restituire libertà d’impresa significa dare un forte contributo alla modernizzazione delle imprese e dell’economia, a migliorare la capacità di competitività, a liberare l’economia dalla zavorra mafiosa
Libero Grassi è sicuramente una figura emblematica della lotta al racket. Mi ha molto colpito la presenza in sala e gli interventi si alcuni familiari di vittima di mafia, la loro dignità, il coraggio…
E’ vero. Quella di ieri non è stata solo una giornata di lavoro, ma anche di forte tensione morale. Penso alla toccante testimonianza di Elisabetta Caponnetto, alla presenza di Massimo Giordano, figlio di Gaetano ucciso poche settimane dopo Libero Grassi, a Franca Pepi e a Gennaro Del Prete, figlio di Federico, venditore ambulante e sindacalista, barbaramente ucciso dalla camorra a Casal di Principe. Anzi, colgo l’occasione per ringraziare Lino Busà che, a nome di tutto del movimento antiracket, ha chiesto pubblicamente scusa a Gennaro per aver per troppo tempo sottovalutato il contributo dato dal padre alla lotta al racket. Il “patto antiracket” dovrà servire anche a questo ad impedire che imprenditori e commercianti coraggiosi vengano lasciati soli a pagare con la propria vita la dignità di essere dei cittadini liberi ed onesti.
Non è, quindi, un caso se tra i garanti della Rete per la Legalità, vi siano delle figure emblematiche?
Naturalmente e sono stato felice che Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, abbia accettato di essere Garante della Rete insieme a personalità come Domenico Cammisotto, il primo imprenditore che ha avuto il coraggio di denunciare la ‘ndrangheta ed ha vissuto dieci anni sotto scorta, Salvatore Cassarà, Maria Isernia e Nino Miceli, che oggi vive con un’altra identità lontano dalla sua amata Sicilia. Il coraggio della loro testimonianza rafforza tutti noi.
Un altro elemento importante di questa I Assemblea della Rete per la Legalità è stata la presenza di importanti esponenti del mondo dell’informazione. Una scelta voluta?
Voluta e sicuramente gradita. Non riusciremo mai a sconfiggere le mafie e il potere criminale se il mondo dell’informazione non si farà carico di informare correttamente i cittadini di quanto sta accadendo. Per questo ho molto apprezzato la presenza di Giuseppe Giulietti, di Gaetano Liardo di Liberainformazione e di Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno, osservatorio della FNSI, che si occupa dei giornalisti minacciati dalla criminalità. Così come è stato importante che Libera Informazione e Articolo 21 abbiano dato il loro fattivo contributo al dibattito, impegnandosi perché anche tutto il mondo dell’informazione faccia la propria parte. Con loro intendiamo aprire una fase di confronto per porci insieme un problema che abbiamo avanti in Italia, quello di rappresentazione,narrazione ed informazione del fenomeno mafioso ed estorsivo.
Il successo di Roberto Saviano non basta più?
Saviano ha fatto un ottimo lavoro ed è un bravissimo scrittore e giornalista. Tutti noi gli siamo grati per come è riuscito a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il problema della camorra casertana. Il rischio che corriamo, oggi, è quello di una spettacolarizzazione del fenomeno , un’icona buona per tutte le stagioni,che presti l’attenzione solo a grandi fatti,ma non alla quotidianità di milioni di cittadini. Per questo è importante valorizzare il lavoro di centinaia di cronisti, spesso giovani precari e di piccole testate locali, che ogni giorno denunciano quanto accade nel territorio. Conoscono i carnefici e le vittime. Pagano, perdendo il lavoro e la tranquillità se toccano qualche centro di potere. E nessuno li difende, nessuno li invita in televisione. Con l’avanzata di Roberto Saviano, cui voglio un gran bene e che stimo tantissimo, bisognerà puntare ad avere sui media altre decine, per non dire centinaia, di articoli in più dei tanti piccoli Saviano sparsi in tutta Italia, che farebbero crescere l’intero Paese in termini di informazione e di cultura della legalità. Non a caso ho citato Jean Francois Gayraud, consigliere del Presidente Nicolas Sarkozy, quando dice che vinceremo la lotta alla criminalità organizzata quando saremo tutti più correttamente informati.