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Articolo 21 - Editoriali
Morire per Allawi
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di Antonio Padellaro

da L'Unità

Paralisi totale degli arti e della mente. Come certi serpenti equatoriali che bloccano le vittime con la forza maligna dello sguardo, le misteriose minacce web all’Italia dei misteriosi terroristi islamici di al Masri (con scadenza, domani, giorno di Ferragosto) un risultato lo hanno ottenuto. Riescono a impedire qualsiasi oscillazione del pensiero, qualsiasi reazione vitale, qualsiasi impulso morale che non sia quella sorta di fissità catatonica sull’insensata carneficina irachena, e di attesa rassegnata del peggio, che tutti quanti ci avvolge. Almeno, la grande stampa americana ha un sussulto di resipiscenza quando l’«Herald Tribune» si chiede: «ma cosa ci stiamo a fare lì?», dando voce all’angoscia dei giovani marines della base di Ramadi.

O quando il «Washington Post», dopo che lo aveva fatto il «New York Times», pubblica il proprio sincero rimorso per avere condiviso, in prima pagina, le menzogne dell’amministrazione Bush sulle armi di distruzione di massa che non c’erano. Cosa stiamo a fare lì?, è un interrogativo che come italiani molto ci riguarda, e che potrebbe rappresentare la degna bandiera di una grande stampa veramente libera, veramente autorevole, veramente intrisa di orgoglio nazionale, che avesse veramente a cuore il destino di un contigente che ha lasciato Nassiriya agli sciiti, confinato a sud-est dell’Eufrate, senza ordini e senza futuro. Per dimostrare autentico amore di patria non basta sventolare il tricolore, intonare l’inno di Mameli o fingere di trepidare per i «nostri ragazzi», su qualche spiaggia alla moda. Dov’è la grande stampa italiana?

Chi scriverà l’articolo che comincia con le stesse parole del premio Pulitzer, Bob Woodward: «Mi sento personalmente responsabile per non avere insistito abbastanza con la direzione; avremmo dovuto mettere in guardia i nostri lettori che le informazioni sulle armi chimiche batteriologiche erano di dubbia provenienza...».

Chi chiederà scusa ai lettori per non averli informati che la missione umanitaria sbandierata dal governo Berlusconi era da tempo diventata una missione militare; che le nostre forze armate partecipano a una vera e propria guerra, in aperto contrasto con l’articolo 11 della Costituzione che la guerra ripudia? E, dei «nostri ragazzi» mandati allo sbaraglio, c’è qualcuno che si preoccupa realmente, a Villa Certosa, tra una cantata e l’altra?. No, non c’è spazio per la legge e la ragione perché il serpente al Masri ha ipnotizzato l’una e l’altra, e si passa il tempo a interpretare la lingua biforcuta dei terroristi: beffa macabra o agghiacciante ultimatum? Si filosofeggia sui 12 o 13 o 14 mila obiettivi sensibili (e perchè non centomila o un milione?), divisi tra la speranza di farla franca e il fatalismo nichilista del tanto se vogliono la bomba la mettono lo stesso.

Oltre che mostri, infatti, il sonno della ragione genera confusione tra le cause e gli effetti. Se è pur vero che l’Italia è nel mirino, non bisognerà prima o poi tornare a domandarsi perché ci siamo fatti coinvolgere nell’orrore della guerra più assurda di cui si abbia memoria,e come possiamo uscirne?

Serve purtroppo a poco indignarsi sulla montagna di balle che è stata raccontata al mondo. Sulle responsabilità storiche della presidenza Bush. Era una guerra sbagliata. Ã? diventata una guerra sbagliata e fuori controllo. Gli americani costretti a riconquistare città dopo città e metro dopo metro un territorio che, evidentemente, mai avevano conquistato. Fallujah sotto il dominio delle bande sunnite e wahabite. Najaf, intrisa di fondamentalismo scita e intenzionata battersi fino all’ultima stilla di sangue, Al Sadr o non Al Sadr. Baghdad sconvolta dalle incessanti esplosioni. Un governo provvisorio fantasma, guidato da un premier, Allawi, che appare più preoccupato di salvare la pelle che di costruire la transizione verso un Iraq forte, stabile, pacifico, e perciò immaginario. Per non parlare dell’Onu, la grande chimera bruciata sull’altare della dottrina unilaterale di Bush. Con il risultato che, all’Iraq, Kofi Annan guarda, adesso, come a un inferno senza ritorno, e dunque senza andata.

Che ci stiamo a fare lì, fu anche, lo scorso 18 aprile, il grido della nuova Spagna di José Luis Rodriguez Zapatero. L’annuncio dell’immediato ritiro dei soldati dall’Iraq è stato un esempio di concretezza, lungimiranza e coraggio. Il nuovo premier ha saputo voltare pagina da un’ora all’altra e ha evitato il pantano dei tira e molla diplomatici e dei ripensamenti tattici. Ha capito che l’Iraq stava diventando un Vietnam per gli eserciti di mezzo mondo. Ha sfidato le accuse di viltà che, infatti, gli è stata rovesciata addosso malgrado l’enorme tributo di sangue e orrore versato dal popolo spagnolo con gli attentati di Madrid. Sarebbe stato un premier vile se avesse piegato la testa davanti alla legge dell’alleato più forte. Ha detto di no. Si è dimostrato un premier responsabile e degno di rispetto.

Ma, si obietta, in Italia la sinistra è all’opposizione e non può decidere, da sola, di ritirare i soldati dall’Iraq. Verissimo, ma può riprendere a parlare di Iraq con decisione e senza sbandamenti. Può stringersi in modo più compatto intorno alla mozione sul ritiro immediato votata a maggio da quasi tutto il centrosinistra. Può agire sugli alleati riottosi di Berlusconi quando si tornerà a votare il rifinanziamento della missione, a cominciare dai cattolici dell’Udc più sensibili alle questioni della pace. Può mobilitare di nuovo il popolo dell’Ulivo, a cui potrebbe idealmente unirsi quella parte del popolo di destra stufo della guerra e preoccupato dal terrorismo incombente. Se evita di farsi paralizzare dal serpente, la sinistra può ancora fare moltissimo. Gli italiani hanno paura e chiedono che qualcuno indichi al paese una via d’uscita. Morire per Danzica, sì. Morire per Allawi, non è proprio il caso.

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