di Daniele Brolli
da L'Unità
«La maison forse è troppo meublée ma spero che la sistemazione sia di vostro gradimento. Mi piacerebbe che tornaste in futuro».
Cherie osserva la suite con uno sguardo stupito, è rigorosamente arredata Luigi XV. «Caro, ma avrà capito che siamo inglesi?»
«Lo sa, lo sa…» la rassicura il marito. Ha gli occhi sgranati che non convergono sull’interlocutore, sembra sempre che guardi oltre.
«Parfait, madame».
«Silvio, è inglese anche lei».
«Ah, non vi siete conosciuti a Parigi?… Scusate ma pensavo che, visto che si chiama Cherie…»
«No Silvio. ? inglese».
«Non so se in villa c’è anche una suite Riccardo III o Maria Stuarda… devo chiedere».
«Lascia stare, questa va benissimo. ? perfino troppo».
«Se volete abbassare l’aria condizionata qui c’è il regolatore. Quel comando laggiù serve per spostare le tende. Il telecomando è di fianco al televisore. Se invece vi serve qualcos’altro fate zero sul telefono, e chiedete al centralinista. Ah, per andare su internet…»
«Grazie Silvio».
«Se dovete telefonare, magari la mamma vuole sapere come stanno i ragazzi, fate cancelletto e poi zero sulla tastiera…» si interrompe un momento voltandosi verso l’interprete: «Ma sei sicura che si dice zero anche in inglese? Perché anche in francese è lo stesso…»
La donna in tailleur azzurro alle sue spalle fa cenno di sì.
«Sullo stereo c’è una scelta di CD musicali con musica tipica italiana Battisti, Mina, e soprattutto napoletana. Trovate anche un demo disc con le mie nuove canzoni, se vi va di ascoltarle…»
«Grazie Silvio…»
«In quel mobile ho fatto mettere i liquori, e spero che nel frigorifero ci sia tutto…» si dirige con passi rigidi nel cucinotto e si sente il rumore depressurizzante dell’apertura dello sportello. «Ehi, ma qui manca la papaya! Ho detto in tutti i modi che la papaya e il mirtillo non devono mancare in nessun frigorifero della villa e voi mi fate fare questa figura miserabile…» riemerge nella sala con un’espressione contrita e furibonda. Spinge un interruttore. «Con questo chiamate la servitù… Mi dispiace immensamente per l’inconveniente».
«Grazie Silvio, non è un problema».
«C’est terrible, pardon moi, madame… Sai Tony, ormai la papaya è indispensabile come misura preventiva per difendersi dalle aggressioni dell’età. C’est vrai?»
«Ecco, noi adesso vorremmo riposare un po’. Abbiamo un po’ di mal di testa, l’elicottero è comodo ma faceva un rumore infernale…»
«Ah, certo! Comunque ricordate di non stringere troppo i rubinetti. Scusate se ve lo dico, ma si spannano. Non vi preoccupate se scende una gocciolina».
«Va bene».
«Ricordati che prima di pranzo abbiamo la partita a calcetto. E oggi pomeriggio prima si telefona a George, poi si va a Porto Cervo. Ci siete mai stati?»
«No».
«Bene. Dirò che nel pomeriggio devono sgombrare». Poi fa il baciamano alla signora. «Non ricordo mai se il galateo prevede il baciamano solo all’aperto, ma voi siete inglesi, che ne sapete del galateo…» Silvio ride e uscendo dà una pacca sul fianco di Tony. «Mi raccomando, pronto per le dieci e mezzo».
Il capo della sicurezza gli si avvicina con un’espressione imbarazzata. «Signore, mi scusi…»
Lui sembra accorgersi della sua presenza solo allora. ? in veranda e sta guardando i riflessi sulla piscina. «Dimmi, caro. E non chiamarmi “signore”. La nostra è una grande famiglia di amici».
«C’è un problema, signore».
«Ah, bene… dimmi, come sto?» Si mette in posa, interamente vestito di bianco, con la bandana e la camicia fuori dai pantaloni.
«Benissimo, signore. Come sempre».
«Pensavo che forse era meglio una bandana nera. Faceva più pirata. E gli inglesi vanno pazzi per i pirati. Ma poi ho pensato che era un po’ troppo Juventus. Sei d’accordo».
L’altro lo sovrasta in silenzio con la sua mole di muscoli, è assorto: sta ascoltando qualcosa all’auricolare.
«Be’, non dici nulla?»
«C’è un problema».
«Non fare quella faccia. Da quando in qua c’è un problema che non si possa risolvere?»
«Sono sbarcati in villa dei profughi».
«Extracomunitari?»
«Sì».
«Nordafricani?»
«No».
Lui sorride, con i denti sbiancati che risaltano sul volto abbronzato come la tazza del cesso nel suo bagno in marmo nero. «E quanti sono?»
«Dieci».
«Perfetto, ci sono anche le riserve. Ci voleva proprio una bella squadra di stranieri. Lavateli, dategli qualcosa da mangiare e poi maglietta e calzoncini. Pronti per le dieci e trenta sul campo da calcetto. Giochiamo Europa contro Africa».
«Ma signore…»
«Non si discute. L’ospitalità a Villa Certosa è sacra. Siamo per l’integrazione». Sta per andarsene quando gli viene in mente qualcosa: «Ah…»
«Sì?…»
«Chiedi se uno di loro ha qualche parente italiano. Anche alla lontana. Francese o inglese va bene lo stesso. Potremmo inserirlo nella nostra squadra. Per fare un po’ di colore…»
«Non si capisce neppure quello che dicono».
«Ma sapranno giocare a pallone? Fai venire subito un interprete».
«Da che lingua?»
«Vi perdete in un bicchier d’acqua. Ne porti uno al telefono e chiamate la Farnesina. Te lo dicono loro in che lingua parla».
«Certo».
«E mi raccomando, fateli sentire a loro agio. Se perdono non voglio sentire scuse».
Dopo il pareggio Silvio e Tony si allontanano insieme verso le docce. L’italiano dà una pacca sulla spalla all’altro. «Complimenti, bel gol. Comunque tosti questi africani». L’interprete, per discrezione, è rimasta lontana. Silvio si guarda intorno contrariato. «Signorina, venga subito qua, che devo dire una cosa a Tony».
La donna si avvicina in silenzio. Lui la prende confidenzialmente per un braccio bagnandola di sudore. «Non faccia quella faccia, mica le chiedo di venire sotto la doccia insieme a noi!»
«…»
«Senta, dica a Tony se si fermano anche domani. Facciamo finta che sono arrivati questo pomeriggio, tanto non se ne accorge nessuno. Qua sono io che detto i tempi». Fa una pausa. «Che ne dice della battuta, funziona?» La ripete tra sé. «Sono io che detto i tempi… Forse no, è meglio: in Italia sono io che detto i tempi. ? più chiara. O è troppo sottolineata? Ma no, va bene. Con questi inglesi non si sa mai…»
L’interprete avvia una breve contrattazione e raccoglie la risposta. «Accetta».
«Bene. Ah, oggi a pranzo stiamo leggeri, che nel primo pomeriggio dobbiamo telefonare in America. Quanto c’è di fuso orario?»
Mentre scendono nel rifugio sotterraneo, Silvio indica il soffitto: «Profondità e rivestimento sono stati studiati dagli scienziati del CNR per renderci immuni a qualsiasi attacco atomico. Il sistema di ventilazione ha un sistema di filtri sterilizzanti che può eliminare armi batteriologiche, perfino quelle di concezione extraterrestre». Controlla nello specchio la posizione della bandana che si è leggermente slacciata. Insieme a lui ci sono Tony, il capo della sicurezza e l’interprete. «Per esempio, può succedere che Stromboli o il Vesuvio, per fare degli esempi qualunque, abbiano un’improvvisa attività eruttiva. Di quelle catastrofiche, e magari scagliano in mare un’enorme lastra di pietra provocando una di quelle onde distruttive, non mi viene come si chiamano…»
«Tsunami». Suggerisce l’interprete interrompendo la traduzione in inglese.
«Bene, in due minuti le coste di Liguria, Toscana, Campania, Calabria e così via, compresa la Costa Smeralda, sarebbero spazzate via. Ma noi saremmo già qua sotto, al sicuro, pronti a guidare la ricostruzione dell’Italia. Una grande ricostruzione…»
L’ascensore arriva a destinazione e i quattro entrano in una sala illuminata a giorno. L’inglese ha un’espressione stanca che lo fa somigliare sempre di più a un batrace. Silvio si riannoda la bandana dietro la testa. «Quasi quasi non me la tolgo più. Con questa mi sento un guerriero. Rambo. Anzi, no, chi era quel capo indiano che ce l’aveva?»
Il capo della sicurezza sorride sicuro di sé, sa la risposta: «Geronimo».
«Sì, bravo, Geronimo. Ma mi sa che ce l’aveva rossa. Come mi starebbe rossa, non fa troppo comunista?»
«Rossonera le starebbe benissimo, se mi permette la battuta». L’energumeno sorride stringendo le palpebre.
«Sì, bella idea». Poi, indispettito dal silenzio che lo circonda, si rivolge all’interprete: «Signorina, sta traducendo per il nostro amico Tony?»
«Non credevo che…»
«Lei traduca tutto. Non si preoccupi».
Sono seduti nella sala per la telefonata in America. L’apparecchiatura per la teleconferenza è sul tavolo. «Chiede se è possibile rimandare. Si sente un po’ stanco».
«Ma che stanco e stanco. Come fa a essere stanco che siamo in vacanza… Signorina, è sicura di aver capito bene?»
«Certo».
«Io non credo. Non credo che un marcantonio britannico come il nostro Tony possa sentirsi stanco nella mite Costa Smeralda. Per loro Portorotondo è come andare alle terme».
«Sono sicura che…»
«Zitta. E facciamo questa telefonata, che Najaf non può aspettare. I nostri ragazzi a Nassiriya sono vittima anche oggi di attacchi ingenerosi e noi stiamo qui a cavillare. Siamo andati a liberare un’ingrata popolazione civile che mentre ci tendono agguati se ne sta a guardare senza far nulla, lasciando che il petrolio vada alle stelle e le città d’arte vengano, giocoforza, distrutte. ? un inferno, se lo lasci dire da uno che c’è stato. Non possiamo rimandare. Chiamiamo e poche fisime».
Qualcuno bussa alla porta della suite Luigi XV con vigore. Appena sentono il rumore, Tony e Cherie si chiudono a chiave ognuno in un bagno.
«Ci siete?… Sono io, ci siete?…»
Nessuna risposta.
«Be’, così mi fate preoccupare». Si volta verso il capo della sicurezza. «Com’è che ti chiami?»
«Adelmo».
«Ah, non me lo ricordo mai. Da quant’è che lavori con me?»
«Due anni, signore».
«Non farmelo ripetere, non chiamarmi signore. Dopo due anni siamo di famiglia». Una pausa. «Alberto, apri questa porta, non vorrei che fosse successo qualcosa».
Mentre Silvio entra, Tony e Cherie si affacciano dalle rispettive porte dei bagni. «Ehi, non è che ho interrotto qualcosa?» Li indica con gli indici delle due mani e fa un sorriso malizioso. «Sareste comunque più silenziosi di un pitone. Da fuori non si sentiva nulla».
«Dicono che stavano preparandosi per la serata». Traduce l’interprete.
«Bene, dopo la telefonata in America, due passi nella corroborante aria salmastra ci vogliono. Prima di cena andremo a occupare Porto Cervo. Sloggiamo tutti quei parvenu che calano d’estate come le cavallette e rimaniamo un’oretta a corroborarci». Ride tra sé e fa il saluto militare.
«Alberto…» Chiama con tono perentorio.
Il capo della sicurezza tradisce una smorfia di fastidio e si avvicina porgendo una scatola foderata di raso color carta di zucchero. Silvio la apre e ne estrae una pistola. «Tieni Tony, questa è per te, mettila in tasca. Siamo al sicuro, ma nel caso qualcosa fosse sfuggito alle strette maglie della nostra intelligence, non voglio vederti in pericolo. ? una Walter PPK .765, come quella di James Bond, visto che sei inglese ho pensato che avresti gradito».
Tony tiene la pistola posata sulle mani davanti a sé, con gli occhi sgranati. Esclama: «Crazy dwarf!»
«…»
«Signorina, che fa, non traduce?»
«Ahem… credevo che si fosse capito. Ha detto “grazie tante”».
«In effetti suona quasi uguale. Sia ben chiaro che quando dico James Bond, mi riferisco a Sean Connery…» Si mette la mano in tasca ed estrae un’altra pistola. «Io tengo una Beretta, prodotto nazionale. Ma la utilizzava anche la polizia americana, finché non sono arrivati gli austriaci con le loro Glock. Per me le Beretta rimangono le migliori. Noi italiani in fatto di armi non siamo secondi a nessuno».
Si guarda attorno. ? calato il silenzio. «Be’, allora, si va sì o no? Muoversi ragazzi!»
La mattina dopo, Silvio è a colloquio con l’interprete. «Davvero vogliono andare via?»
«Sì, impegni improrogabili».
«Vedremo cosa si può fare per farli restare. Magari se arrivasse anche Vladimir…»
«Cosa devo dire?»
«Li vada a chiamare, pronti per il breakfast tra venti minuti…» Si ferma un attimo a riflettere. Apre l’anta di un armadio e consegna un involto alla donna. «Un momento signorina, gli dia queste, sono tipiche. Gli farà senz’altro piacere averle».
La carta si apre e rivela una pila di cartoline di sughero con riproduzioni intagliate di paesaggi sardi.
Appena uscita la donna, appare il capo della sicurezza, scuro in volto. «Cosa c’è, Alberto?… Visto che mi ricordo come ti chiami?»
«Adelmo».
«Sì Alberto, dimmi».
«? approdata un’altra barca di profughi».
«E no, adesso esagerano! Quanti sono?»
«Meno di dieci. Sette, forse otto. Uno è scappato».
«La servitù è al completo, non possiamo assorbire tutti quelli che arrivano. Da dove vengono questa volta, sono di nuovo negri?»
«Non lo so, comunque sono nordafricani».
«Vuoi dire arabi?» Silvio si fa pensoso.
«In un certo senso».
Silvio sorride. «Sai cosa ti dico, capitano a fagiolo. Falli pulire e rivestire in fretta. Che siano pronti per il breakfast».
Silvio accoglie Tony e Cherie nella gigantesca sala da pranzo, profumata di oleandro e di cibo. «Tony, Cherie, non esiste che ve ne andiate oggi. Ho una sorpresa per voi, una visita molto importante».
Tony sgrana gli occhi stanchi, venati dal sangue dei capillari e con la palpebra destra che vibra leggermente per lo stress.
«Guardate chi è arrivato proprio stamattina…» Silvio indica degli uomini seduti al tavolo. «La delegazione irachena!»