Articolo 21 - INTERNI
Cie San Gervasio: "E' inumano, va chiuso"
di redazione
Sindacati, associazioni e terzo settore compatti contro il Cie di San Gervasio. Quella struttura è illegale perchè viola i più elementari diritti umani, quindi va chiusa. L'appelllo viene lanciato nel corso della conferenza stampa tenutasi lo scorso 20 giugno, in occasione della giornata del rifugiato. Mentre per il 25 le stesse si preparano a manifestare proprio di fronte alla struttura... Cosa sia effettivamente il Cie di San Gervasio lo racconta in questo articolo pubblicato da Liberazione, Stefano Galieni, in seguito alla visita effettuta dalla delegazione parlamentare composta da Jean Leonard Touadi, Rosa Villecco Calipari e Giuseppe Giulietti.
Le due prigioni
Si vedono solo piedi scalzi e stivali d’ordinanza e poi sbarre, sbarre e tende. Ma bisogna sdraiarsi a terra, rubare un immagine di ciò che si scorge da sotto i cancelli o fra i bordi sfrangiati di un telone. Giornalisti e telecamere non possono entrare, sono un intralcio, una presenza minacciosa e inaccettabile, lo stesso vale per qualsiasi occhio estraneo, sia quello di un collaboratore di parlamentare, di esponenti istituzionali regionali o provinciali, è sottoposta al vaglio della prefettura anche la scelta di un legale di fiducia. Non eravamo in un carcere di massima sicurezza, neanche a Guantanamo o ad Abu Ghraib, in nessuna delle strutture detentive dei sistemi totalitari che giustamente si additano come esempi da esecrare alla pubblica opinione. Eravamo a Palazzo S. Gervasio, paesino a pochi chilometri da Potenza, davanti ad un alto muro di cinta costruito in pochi giorni, tanto è bastato per trasformare un centro di accoglienza e identificazione per i profughi dalle rivolte del Mediterraneo in un Centro di Identificazione ed Espulsione “temporaneo”, una nuova denominazione per identificare l’ennesimo luogo di privazione di libertà personale.
Una storia lunga anni. In passato l’area in cui sorge il Cie era utilizzata per accogliere i migranti sfruttati nell’agricoltura. Condizioni igienico sanitarie precarie, piani di accoglienza mai approvati, finanziamenti che mai hanno seguito il percorso previsto. Comunque un posto in cui fermarsi e dormire, un posto in cui fra tanta indifferenza, fra tanto sfruttamento, serpeggiavano anche pratiche di accoglienza. Lo scorso anno il progetto si interrompe e la struttura viene evacuata, poi tutto muta in pochi giorni. L’arrivo dei primi profughi determina la realizzazione di una delle tante tendopoli affidate alla Protezione Civile, le responsabilità nella gestione passano di mano in mano, intanto chi ci riesce fugge dal centro, chi ha pazienza e fortuna ottiene il permesso di protezione temporanea e se ne va in cerca di futuro. In 57 restano, per ragioni diverse: si tratta di cittadini tunisini che rischiano il rimpatrio. Attorno a quelle persone, a quelle tende in piena campagna, dove il clima passa dal caldo torrido alla pioggia scrosciante, si costruisce un Cie.
Teoricamente la struttura dovrebbe restare operativa fino al 31 dicembre, in base alla “emergenza nordafricana”, ma le voci circolano. Sembra che entro luglio i tunisini saranno rimpatriati ma che nel frattempo arriveranno container per rendere il centro più “sicuro”. Sono già stati spesi 2 milioni di euro per i lavori svolti e per affidare la gestione del centro ad una cooperativa che si è resa immediatamente disponibile, la stessa che gestisce il Cie e il Cara di Trapani, altri soldi serviranno se il centro diventerà stabile. Alla popolazione della zona viene fatto credere che si creeranno posti di lavoro direttamente e con l’indotto derivante dalla presenza stabile di agenti di polizia, si induce a pensare che con il centro non ci sarà più la dispersione dei “clandestini” nei casali circostanti. Due figure “il clandestino” e “il bracciante al nero” che spesso corrispondono alla stessa persona, ma che sembra attengano a categorie di pensiero agli antipodi.
La storia di Palazzo S. Gervasio sembra destinata come tante a restare invisibile ma accade l’impensato. Alcuni reclusi girano con i cellulari video in cui si testimoniano gli abusi subiti, grazie ai cellulari, le immagini escono e si incrociano con il lavoro che sta prendendo piede e che vede collaborare, nel rispetto delle rispettive autonomie, operatori dell’informazione e l’ordine che li rappresenta, parlamentari dell’opposizione, associazionismo presente sul territorio. Sullo sfondo una assurda e illegittima circolare del ministro Maroni, emanata, per ironia della sorte il 1 aprile, in cui si elencano le organizzazioni ammesse a entrare in luoghi di accoglienza e identificazione per migranti. Da questo elenco sono esclusi tanto i collaboratori dei parlamentari, quanto i membri di associazioni non comprese nell’elenco ministeriale, quanto gli operatori dell’informazione. Un appello firmato da numerosi giornalisti si diffonde per chiedere il ritiro della circolare e la trasparenza nei centri, alcuni parlamentari elaborano interrogazioni parlamentari, l’Ordine dei Giornalisti e la Fnsi si dichiarano non disponibili a subire in silenzio l’ennesimo abuso. In tutta fretta si forma una delegazione parlamentare che parte alla volta del centro. Ne fanno parte Rosa Villecco Calipari, Jean Leonard Touadì e Beppe Giulietti, con loro anche alcuni giornalisti.
Davanti al centro, insieme ad attivisti antirazzisti esponenti locali del Prc e del Pd, legali, giornalisti di varie testate, troviamo l’ennesima conferma. Entrano soltanto i parlamentari nonostante le rimostranze. Dopo un ora escono. Rosa Calipari appare visibilmente provata. Poche ma efficaci parole accolte da applausi:«I ragazzi reclusi reclamano libertà. Il Cie è inumano, va chiuso. È l’unica soluzione possibile». Per la parlamentare quel luogo è invivibile sia per i reclusi che per gli agenti di polizia addetti alla sorveglianza, compiti ingrati. Gli stessi agenti fanno cenni di assenso. Touadì, pone l’accento su due questioni altrettanto inaccettabili: il mancato recepimento della “direttiva europea sui rimpatri” che rende illegali i trattenimenti adottati come consuetudine e non come estrema ratio, e il fatto che a scegliere i legali di ufficio che possono avere accesso al centro è il prefetto. Se qualche ragazzo prova a nominare legali di fiducia si ritrova la sua richiesta bloccata dal mercato delle difese d’ufficio.
Da un mese e nonostante diretta ed espressa richiesta, i legali di cui i ragazzi si fidano sono considerati indesiderabili, come i giornalisti, come chiunque altro si provi a gettare lo sguardo in questo lembo sperduto di campagna lucana. Per Giulietti, presente anche in veste di Presidente dell’ass. Articolo 21, nel Cie si viola la Costituzione in maniera arbitraria, impedendo il diritto all’informazione. I tre parlamentari, insieme agli attivisti presenti, considerano quello di ieri solo il primo di una serie di appuntamenti e di battaglie contro i Cie. Ce ne andiamo scoraggiati dall’ennesima dimostrazione di abuso di potere, ma non basta. A 10 km dal centro, gli operatori dell’Osservatorio Migranti, ci mostrano un'altra forma di reclusione, meno appariscente ma altrettanto violenta. Si percorrono strade sterrate e si giunge a casupole diroccate da cui sbucano giovani africani. Lavorano in campi distanti chilometri dal buco in cui vivono, l’acqua da bere e con cui lavarsi è contenuta in taniche, di luce e servizi neanche si parla. Pochi euro al giorno e il bisogno di tenersi il lavoro, i tuguri sono sparsi in un area vasta decine di chilometri, sembra di essere precipitati in un altro Paese, dove le regole di vita sono più cattive e improntate all’isolamento. Due gabbie diverse, due soluzioni negative ad un unico problema, la predisposizione di un piano di accoglienza condiviso, che garantisca lavoro legale e dignitoso e condizioni di vita decenti, degno di un paese che ha accolto ghanesi, burkinabè e tunisini come persone da proteggere e non da rinchiudere in recinti nascosti o dispersi nella campagna arsa dal sole e battuta dalle intemperie. Dilapidando meno risorse, facendo meno proclami e elaborando proposte, le due gabbie potrebbero non esistere.
Stefano Galieni
Le due prigioni
Si vedono solo piedi scalzi e stivali d’ordinanza e poi sbarre, sbarre e tende. Ma bisogna sdraiarsi a terra, rubare un immagine di ciò che si scorge da sotto i cancelli o fra i bordi sfrangiati di un telone. Giornalisti e telecamere non possono entrare, sono un intralcio, una presenza minacciosa e inaccettabile, lo stesso vale per qualsiasi occhio estraneo, sia quello di un collaboratore di parlamentare, di esponenti istituzionali regionali o provinciali, è sottoposta al vaglio della prefettura anche la scelta di un legale di fiducia. Non eravamo in un carcere di massima sicurezza, neanche a Guantanamo o ad Abu Ghraib, in nessuna delle strutture detentive dei sistemi totalitari che giustamente si additano come esempi da esecrare alla pubblica opinione. Eravamo a Palazzo S. Gervasio, paesino a pochi chilometri da Potenza, davanti ad un alto muro di cinta costruito in pochi giorni, tanto è bastato per trasformare un centro di accoglienza e identificazione per i profughi dalle rivolte del Mediterraneo in un Centro di Identificazione ed Espulsione “temporaneo”, una nuova denominazione per identificare l’ennesimo luogo di privazione di libertà personale.
Una storia lunga anni. In passato l’area in cui sorge il Cie era utilizzata per accogliere i migranti sfruttati nell’agricoltura. Condizioni igienico sanitarie precarie, piani di accoglienza mai approvati, finanziamenti che mai hanno seguito il percorso previsto. Comunque un posto in cui fermarsi e dormire, un posto in cui fra tanta indifferenza, fra tanto sfruttamento, serpeggiavano anche pratiche di accoglienza. Lo scorso anno il progetto si interrompe e la struttura viene evacuata, poi tutto muta in pochi giorni. L’arrivo dei primi profughi determina la realizzazione di una delle tante tendopoli affidate alla Protezione Civile, le responsabilità nella gestione passano di mano in mano, intanto chi ci riesce fugge dal centro, chi ha pazienza e fortuna ottiene il permesso di protezione temporanea e se ne va in cerca di futuro. In 57 restano, per ragioni diverse: si tratta di cittadini tunisini che rischiano il rimpatrio. Attorno a quelle persone, a quelle tende in piena campagna, dove il clima passa dal caldo torrido alla pioggia scrosciante, si costruisce un Cie.
Teoricamente la struttura dovrebbe restare operativa fino al 31 dicembre, in base alla “emergenza nordafricana”, ma le voci circolano. Sembra che entro luglio i tunisini saranno rimpatriati ma che nel frattempo arriveranno container per rendere il centro più “sicuro”. Sono già stati spesi 2 milioni di euro per i lavori svolti e per affidare la gestione del centro ad una cooperativa che si è resa immediatamente disponibile, la stessa che gestisce il Cie e il Cara di Trapani, altri soldi serviranno se il centro diventerà stabile. Alla popolazione della zona viene fatto credere che si creeranno posti di lavoro direttamente e con l’indotto derivante dalla presenza stabile di agenti di polizia, si induce a pensare che con il centro non ci sarà più la dispersione dei “clandestini” nei casali circostanti. Due figure “il clandestino” e “il bracciante al nero” che spesso corrispondono alla stessa persona, ma che sembra attengano a categorie di pensiero agli antipodi.
La storia di Palazzo S. Gervasio sembra destinata come tante a restare invisibile ma accade l’impensato. Alcuni reclusi girano con i cellulari video in cui si testimoniano gli abusi subiti, grazie ai cellulari, le immagini escono e si incrociano con il lavoro che sta prendendo piede e che vede collaborare, nel rispetto delle rispettive autonomie, operatori dell’informazione e l’ordine che li rappresenta, parlamentari dell’opposizione, associazionismo presente sul territorio. Sullo sfondo una assurda e illegittima circolare del ministro Maroni, emanata, per ironia della sorte il 1 aprile, in cui si elencano le organizzazioni ammesse a entrare in luoghi di accoglienza e identificazione per migranti. Da questo elenco sono esclusi tanto i collaboratori dei parlamentari, quanto i membri di associazioni non comprese nell’elenco ministeriale, quanto gli operatori dell’informazione. Un appello firmato da numerosi giornalisti si diffonde per chiedere il ritiro della circolare e la trasparenza nei centri, alcuni parlamentari elaborano interrogazioni parlamentari, l’Ordine dei Giornalisti e la Fnsi si dichiarano non disponibili a subire in silenzio l’ennesimo abuso. In tutta fretta si forma una delegazione parlamentare che parte alla volta del centro. Ne fanno parte Rosa Villecco Calipari, Jean Leonard Touadì e Beppe Giulietti, con loro anche alcuni giornalisti.
Davanti al centro, insieme ad attivisti antirazzisti esponenti locali del Prc e del Pd, legali, giornalisti di varie testate, troviamo l’ennesima conferma. Entrano soltanto i parlamentari nonostante le rimostranze. Dopo un ora escono. Rosa Calipari appare visibilmente provata. Poche ma efficaci parole accolte da applausi:«I ragazzi reclusi reclamano libertà. Il Cie è inumano, va chiuso. È l’unica soluzione possibile». Per la parlamentare quel luogo è invivibile sia per i reclusi che per gli agenti di polizia addetti alla sorveglianza, compiti ingrati. Gli stessi agenti fanno cenni di assenso. Touadì, pone l’accento su due questioni altrettanto inaccettabili: il mancato recepimento della “direttiva europea sui rimpatri” che rende illegali i trattenimenti adottati come consuetudine e non come estrema ratio, e il fatto che a scegliere i legali di ufficio che possono avere accesso al centro è il prefetto. Se qualche ragazzo prova a nominare legali di fiducia si ritrova la sua richiesta bloccata dal mercato delle difese d’ufficio.
Da un mese e nonostante diretta ed espressa richiesta, i legali di cui i ragazzi si fidano sono considerati indesiderabili, come i giornalisti, come chiunque altro si provi a gettare lo sguardo in questo lembo sperduto di campagna lucana. Per Giulietti, presente anche in veste di Presidente dell’ass. Articolo 21, nel Cie si viola la Costituzione in maniera arbitraria, impedendo il diritto all’informazione. I tre parlamentari, insieme agli attivisti presenti, considerano quello di ieri solo il primo di una serie di appuntamenti e di battaglie contro i Cie. Ce ne andiamo scoraggiati dall’ennesima dimostrazione di abuso di potere, ma non basta. A 10 km dal centro, gli operatori dell’Osservatorio Migranti, ci mostrano un'altra forma di reclusione, meno appariscente ma altrettanto violenta. Si percorrono strade sterrate e si giunge a casupole diroccate da cui sbucano giovani africani. Lavorano in campi distanti chilometri dal buco in cui vivono, l’acqua da bere e con cui lavarsi è contenuta in taniche, di luce e servizi neanche si parla. Pochi euro al giorno e il bisogno di tenersi il lavoro, i tuguri sono sparsi in un area vasta decine di chilometri, sembra di essere precipitati in un altro Paese, dove le regole di vita sono più cattive e improntate all’isolamento. Due gabbie diverse, due soluzioni negative ad un unico problema, la predisposizione di un piano di accoglienza condiviso, che garantisca lavoro legale e dignitoso e condizioni di vita decenti, degno di un paese che ha accolto ghanesi, burkinabè e tunisini come persone da proteggere e non da rinchiudere in recinti nascosti o dispersi nella campagna arsa dal sole e battuta dalle intemperie. Dilapidando meno risorse, facendo meno proclami e elaborando proposte, le due gabbie potrebbero non esistere.
Stefano Galieni
Letto 2806 volte
Notizie Correlate
CIE: " Questi luoghi della vergogna vanno chiusi"
Il Cie di San Gervasio va chiuso. Interpellanza urgente a Maroni
Rompiamo il silenzio sui CIE. Lanciata mobilitazione nazionale
Lettera aperta al ministro Andrea Riccardi
Cie, appello della societa' civile ai giornalisti: chiedete l'accesso alle prefetture
Circolare sui CIE: "Governo rispetti articolo21 della Costituzione"
Audio/Video Correlati
Dalla rete di Articolo 21