di Felicia Masocco
da L'Unità
ROMA Lavorare meno per lavorare tutti? Il vento che soffia in Europa porta il messaggio opposto, per lavorare tutti si è costretti a lavorare di più. E bisogna farlo a parità di salario. Da un paio di mesi dalla Francia e dalla Germania, i due paesi che avevano issato la bandiera delle 35 ore settimanali, arrivano notizie di accordi all’insegna della regressione sociale e sindacale. La carenza di competitività viene risolta con l’allungamento dell’orario, da prendere o lasciare sotto la minaccia della «delocalizzazione», il trasferimento delle attività altrove. In Ungheria, in Polonia, in Romania dove i costi del lavoro sono più bassi e dove la competizione si gioca sui diritti, sulla loro assenza.
In giugno la Ig Metall, il potente sindacato tedesco dei metalmeccanici ha siglato un accordo con la Siemens accettando che in due stabilimenti l’orario di lavoro passasse dalle 35 ore contrattuali alle 40, senza aumento di stipendio. L’alternativa era che 2mila posti di lavoro traslocassero nel Nord dell’Ungheria dove i salari sono cinque volte più bassi. Il 19 luglio in Francia, allo stabilimento Bosch di Venissieux (Lione), il 98% degli 820 dipendenti ha detto sì a un un accordo che abbandona le 35 ore - in Francia sono legge -, si lavora di più (36) a parità di salario, e in cambio la multinazionale non trasferirà la produzione di iniettori e candele per diesel nella Repubblica Ceca. Ancora in Germania, alla Daimler-Chrysler di Sindelfingen è stato raggiunto un accordo che prevede l’allungamento dell’orario, in alcuni settori, da 35 a 40 ore. ? il prezzo che i lavoratori pagheranno per mantenere la produzione della Mercedes C e 6mila posti di lavoro dalle parti di Stoccarda. Ancora: il 16 agosto i dipendenti dell’impianto Opel di Eisenach hanno accettato un orario settimanale di 47 ore in cambio della promessa di non toccare i posti di lavoro fino al 2007. Infine, dal Belgio, il consiglio di amministrazione delle fonderie «Marichal Ketin» per far fronte alle difficoltà di bilancio ha proposto il ritorno alle 40 ore settimanali, anche in questo caso a parità di salario. Il ragionamento che fanno a Liegi è questo: dato che il rincaro delle materie prima porta perdite mensili di 250mila euro, delle due l’una, o si riducono i contratti interinali, oppure si passa dalle 36 ore di lavoro a 40, senza un euro in più. Il ricatto è sempre quello del trasferimento delle attività. Ma i lavoratori non hanno (ancora) ceduto e mercoledì scorso hanno respinto la proposta all’unanimità. Il dispositivo però è innescato. La Confindustria belga si dice pronta ad aprire il dibattito sulle 40 ore, «le nostre imprese - spiega il direttore generale della Feb, Pieter Timmermans - devono affrontare un handicap salariale con i paesi vicini che varia dall’8% al 10%».
L’argomento sarà all’ordine del giorno anche in Italia? La segretaria confederale della Cgil Carla Cantone è convinta che avverrà molto presto, «approfittando delle notizie che vengono dall’Europa in molti stanno già facendo “ginnastica” su questa soluzione per evitare le delocalizzazioni, ci si interroga se il declino industriale italiano possa essere affrontato così». In Italia l’orario di lavoro è fissato nei contratti a 40 ore settimanali, «si lavora più che altrove - afferma il segretario confederale della Cisl Raffaele Bonanni - e se non viene fuori è perché spesso si tratta di ore “occultate”, si lavora più sabati e più ore durante la giornata, almeno nelle piccole e medie aziende», che poi sono il grosso della rete produttiva del Paese. Dunque il problema non dovrebbe porsi, eppure in marzo ci aveva provato Silvio Berlusconi a dire che «ci sono troppe festività», che bisognava «far lavorare di più gli italiani» e che la cancellazione di qualche festivo avrebbe avuto «effetti benefici sul Pil». Questo per dire che l’idea di scaricare sul lavoro i costi della crisi non è per nulla remota.
«Nel documento che ci ha presentato Confindustria a metà luglio - continua Cantone - si legge che il nuovo modello contrattuale deve rispondere alle esigenze dell’azienda e che gli incrementi retributivi devono basarsi sulla redditività dell’impresa. Secondo questo schema il declino industriale si risolve con un nuovo modello contrattuale che non si basa sulla tutela del potere d’acquisto. Nella cultura delle nostre imprese c’è l’idea che le crisi si debbano risolvere non innovando o investendo sulla ricerca e sulla formazione, ma tagliando il costo del lavoro». La Cgil ha già detto che quanto sta accadendo nei paesi d’Oltralpe non è esportabile in Italia «è inaccettabile, credo sia anticostituzionale allungare l’orario a parità di salario, è sfruttamento». «Il sindacato europeo dovrebbe darsi una mossa - continua la sindacalista - si deve svegliare e cominciare a porre la questione in termini di lotta comune all’Unione, serve una vertenza sugli orari che metta insieme tutti i Paesi». Oltre a questa iniziativa, per il sindacato di Corso d’Italia ne occorre un’altra per la coesione sociale, «per la parità dei diritti anche nei Paesi che sono appena entrati nella Ue, altrimenti si rischia una guerra tra poveri».
? una sorta di dumping sociale, quello che si sta creando, «ma è un’ipocrisia guardare solo al minor costo del lavoro - aggiunge Raffaele Bonanni -. C’è anche l’aspetto fiscale: da noi la tassazione per le imprese si aggira intorno al 33%, in Estonia, Lituania, Lettonia, non arriva al 16% e l’Estonia chiede addirittura all’Unione di praticare tassi zero per un periodo di tempo». Anche la Cisl è convinta che il problema della «delocalizzazione» con annessi e connessi sia destinato ad imporsi anche da noi, «dovremo fronteggiarlo, ma certo non allungando l’orario». E lo stesso afferma la Uil, con il segretario generale aggiunto Adriano Musi: «In Italia il problema non si pone. Punto. Primo perché non abbiamo le 35 ore ma sia tutti abbondantemente sulle 40. Secondo, l’esperienza dei contratti di solidarietà, cioè contrattazione che redistribuisce orario e monte salario tra i lavoratori è già presente come soluzione alle crisi». Musi ricorda come all’ultimo congresso della Ces, il sindacato europeo, Cgil, Cisl e Uil non votarono la mozione che estendeva le 35 ore a tutti i Paesi europei, perché, spiega, «o si davano garanzie che la regola sarebbe stata applicata a tutti e 25 i Paesi, oppure avrebbe finito con l’essere un elemento di dumping».
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Lavorare di più guadagnare di meno. Dalla Opel alla Siemens in Europa vince il ricatto: più ore con lo stesso salario oppure sei licenziato
ROMA Lavorare di più a salario invariato. Accade in Francia e in Germania, dove per legge o per contratto l’orario settimanale è fissato a 35 ore, e accade in Belgio e in Olanda. Sotto la minaccia della «delocalizzazione», del trasferimento della produzione all’Est dove i costi e le tasse per le aziende sono più bassi, ai tedeschi della Siemens e della Opel, e ai francesi della Bosch è stato fatto ingoiare il rospo. Per far fronte alle crisi devono garantire più produttività prestando lavoro più ore senza un euro in più di retribuzione. I belgi delle fonderie Marichal Ketin mercoledì scorso hanno respinto una proposta analoga, ma anche lì è stata innestata la marcia indietro sulla riduzione dei tempi di lavoro. Insomma, non è più tempo di lavorare meno per lavorare tutti. «? tempo di sfruttamento», denuncia la Cgil, che chiama in causa il sindacato europeo perché non resti a guardare. In Italia l’orario settimanale è di 40 ore «a nessuno venga in mente di risolvere la crisi, il declino, allungandolo», avvertono i sindacati. Un tentativo lo aveva fatto il premier proponendo di cancellare qualche «festivo» a beneficio del Pil.
Con la legge del ’97 l’orario funziona così
ROMA Le prime regole sull’orario di lavoro risalgono in Italia al 1923, per legge si fissò l’orario di lavoro a 8 ore e quello settimanale a 48. Le prime riduzioni a 40 ore si ebbero nei primi anni Settanta, con i contratti di categoria. Solo nel 1997 la conquista contrattuale delle 40 ore è diventata norma per tutto il mondo del lavoro. L’anno scorso la materia dell’orario di lavoro è stata nuovamente e profondamente modificata con il recepimento della direttiva europea da parte del governo italiano che ne ha dato un’interpretazione che ha suscitato forte critiche da parte del sindacato. Cgil, Cisl e Uil ritengono che il decreto legge 66 non tenga conto delle condizioni di miglior favore presenti nel nostro ordinamento, mentre la direttiva europea affermava che dovessero valere. Limita, inoltre l’autorità de contratto nazionale.L’orario normale di lavoro è fissato nei contratti a 40 ore settimanali, oltre le quali scatta lo straordinario. I contratti collettivi possono stabilire, per attività specifiche, durate inferiori, mentre per alcune categorie (agricoli, commessi viaggiatori, giornalisti, dipendenti delle industrie di ricerca idrocarburi, di impianti di distribuzione dei carburanti, e elenco potrebbe continuare) il limite della media settimanale sale a 48 ore. Il limite massimo giornaliero è di 13 ore. La durata media dell’orario va calcolata in riferimento a un lasso di tempo non inferiore ai 4 mesi e non può essere superiore alle 48 ore settimanali, straordinario compreso. Il tetto annuo di lavoro straordinario non può superare le 250 ore. La maggiorazioni salariali scattano tra le 40 e le 48 ore (lavoro supplementare) e vanno dal 5 al 10%. Gli straordinari, oltre le 48 ore portano maggiorazioni del 10%; del 18 o 20% se notturno o festivo.