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Articolo 21 - Editoriali
Se l’Italia Finisce Male
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di Gian Giacomo Migone

da L'Unità

In un articolo prudentemente pubblicato nella rubrica «Opinioni» da «La Stampa» del 20 agosto, l’ambasciatore Boris Biancheri richiama l’attenzione sul pericolo che l’Italia finisca in serie B (o C) come effetto di una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu che la escluda dal novero dei nuovi membri permanenti. Il pericolo è reale ed è stato recentemente più volte segnalato e commentato da «l’Unità» come saprà bene il presidente dell’Ansa (che è sempre Biancheri). Tuttavia egli ritiene che «molti, soprattutto tra le anime candide della sinistra, si chiedono ma quale importanza ha essere membri del Consiglio di Sicurezza?» e, forse per equilibrare l’accusa che egli muove alla maggioranza di avere «messo alla sordina ciò che rischia di essere un insuccesso», aggiunge: «L’opposizione, invece, ha visto in tutta la vicenda un futuro inciampo per Berlusconi e non un problema di carattere nazionale».
Quando mai? Qui si confonde l’indipendenza di giudizio con l’equidistanza (per non parlare di cerchiobottismo, orribile ma sapido neologismo coniato, credo, da Paolo Mieli). La questione merita una polemica diretta, genere a cui ricorrere con parsimonia, perché fin troppo scontato, specie d’agosto. La merita, la questione, per almeno due buone ragioni: perché alla radice delle affermazioni di Biancheri sussiste una lettura distorta degli ultimi dieci anni di politica estera italiana, ma anche per il livello di chi, consapevolmente o meno, se ne rende responsabile. Oltre che amico di antica data di chi scrive («amicus plato»...), Boris Biancheri, ambasciatore di rango, già rappresentante del suo Paese a Londra e a Washington, Segretario generale della Farnesina, oggi presidente dell’Ansa, è una delle rarissime persone nel nostro difficile Paese, di cui le capacità professionali corrispondono perfettamente al brillante cursus honorum. Insomma, una persona con cui vale la pena discutere, ricostruendo una vicenda di grande peso per il futuro immediato della nostra diplomazia e anche per la nostra posizione nel mondo. Perché, come giustamente osserva Biancheri, non è uno scherzo per un Paese delle dimensioni e delle risorse del nostro essere relegato nel gruppone indistinto degli esclusi dall’oligarchia governante in Consiglio di sicurezza, nel momento in cui esso verrebbe allargato di sette membri (secondo i propositi dei saggi nominati da Kofi Annan). Qui siamo oltre quella che è la tradizionale politica della sedia (per la verità chi ha così definito l’eterno presenzialismo italiano spesso privo di altri obiettivi politici, Pietro Quaroni, usava un sostantivo più espressivo), anche se, per difenderla occorre collocare la nostra pur giustificata difesa di un interesse nazionale in un contesto più ampio della semplice estensione di un principio oligarchico.
Ã? quanto dissi all’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, allora nostro rappresentante presso l’Onu, quando chiese e ottenne prima dalla Commissione esteri del Senato (che allora presiedevo) e, successivamente, da quella della Camera quell’appoggio che, per non offendere gli Stati più potenti, il primo governo Berlusconi e la stessa Farnesina, intesa come comunis opinio dei vertici della nostra diplomazia, stentava a concedergli. Fulci ha avuto il grande merito di avere condotto, negli anni successivi con durezza una battaglia senza la quale la nostra esclusione sarebbe da tempo un affare fatto e che produsse, come frutto più maturo, una decisione che tutt’ora impone una maggioranza dei due terzi dell’Assemblea generale per la riforma della composizione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Una durezza necessaria perché il potere è potere, come ci ricorda Biancheri, anche se chi spesso lo invoca, ostentando una visione bismarckiana della diplomazia, preferisce interpretarla nel senso di un discreto chuchotage o sussurro nell’orecchio dei più potenti (non so perché, ma a questo punto mi viene in mente la recente telefonata a Bush di Berlusconi e Blair a proposito dei luoghi sacri iracheni). Qui si trattava di mettere insieme una maggioranza di Stati medi e piccoli (il famigerato choffer club di Fulci), guidati da un’Italia insolitamente capace di preferire il ruolo di primo dei borghesi a quello di ultimo dei nobili, in nome di un progetto di riforma democratica (perché anche la democrazia con la diplomazia c’entra, caro ambasciatore, essendo quella bismarckiana in parte - solo in parte - sepolta sotto gli esiti di due guerre mondiali e di una guerra fredda) che corrispondeva agli interessi di un folto numero di Stati.
Fulci era un nazionalista classico, ma tattico accorto, che non stentò ad accorgersi che pochi erano disposti a commuoversi di fronte alle buone ragioni dell’Italia che non corrispondessero a una visione d’ insieme di riforma dell’Onu rispondente a interessi non solo nostri (come gli chiarirono i fatti più che i nostri suggerimenti parlamentari che pure ci furono da parte del centrosinistra). Così nacque la proposta di membri semipermanenti a rotazione che corrispondevano ad alcune caratteristiche oggettive. Più difficile fu convincere Fulci che i nostri avversari principali non erano necessariamente la Germania (allora più di oggi imbarazzata di fronte alla nostra richiesta parallela, pur non di immediata realizzazione, di un seggio europeo, della migliore tradizione di Adenauer a Brandt) e gli altri stati che bussavano alla porta del Consiglio. Il nucleo duro dei fautori di un allargamento era e resta costituito dal Regno Unito e dalla Francia che, intenzionati a difendere le loro prerogative di membri permanenti con diritto di veto, intendono riverniciarne l’anacronismo allargando l’oligarchia ad altri membri permanenti pur senza diritto di veto, anziché farsi affiancare e, poi, inesorabilmente sostituire da un solo rappresentante come sarebbe nell’interesse di un’unione che aspira a essere soggetto politico europeo.
Ora la partita si è complicata perché le candidature del Brasile (che sembra avere assorbito le pressioni dell’Argentina ma forse non del Messico) e dell’India (ma cosa farà il Pakistan?) come rappresentanti dell’emisfero meridionale, a cui i saggi hanno astutamente aggiunto due seggi liberi, che potrebbero essere occupati da altre candidature afroasiatiche da aggiungersi a quelle riconosciute del Giappone e del Sudafrica. Ã? ovvio che questa logica offra pochi spazi a quella italiana all’interno di un novero di Stati in cui l’Europa, per di più occidentale, sarebbe già sovrarappresentata, aggiungendosi la Germania alla Francia e al Regno Unito. Se la battaglia è difficile non è nemmeno persa in partenza, purché la si intraprenda. Da questo punto di vista l’intervista recentemente concessa dal ministro Frattini al «Corriere della Sera» lascia di stucco. Biancheri e chi scrive non avrebbero difficoltà a convenire che, senza la mobilitazione di una minoranza ostativa o di blocco, come la chiama - escludendola - Frattini, non vi potrà essere nemmeno negoziato; solo l’invocazione umiliante di amici più potenti (Regno Unito, Russia, soprattutto gli Stati Uniti) che finora non hanno dato alcun segnale di disponibilità nei nostri confronti. Altra cosa è un’ipotesi di riforma che preveda in forme variabili (le soluzioni possibili sono molte, purché lo si voglia) una rappresentanza regionale che soddisfi i più rilevanti esclusi (Biancheri ne cita alcuni: Pakistan, Egitto, Messico, Polonia, Turchia, Argentina, Spagna, a cui aggiungerei il Canada) e che salvaguardi la dignità di tutti in una direzione che non costituisca un semplice rafforzamento del principio oligarchico. Come sempre, si tratta di coniugare il potere con la democrazia, in sintonia con una storia che qualcosa ha mutato, oltreché insegnato, da Bismarck in poi. Ã? ovvio che la battaglia va portata innanzitutto all’interno dell’Unione Europea che, anch’essa, gioca il suo futuro di soggetto politico.
A queste condizioni non mancherà quell’unità di intenti che in passato si è realizzata in Parlamento su un argomento che sicuramente, oltre che salvaguardare un interesse nazionale, corrisponde alla più nobile vocazione presente nella coscienza pubblica italiana, pronta ad assumere gli impegni derivanti dalla costruzione di un mondo più pacifico e più giusto. E su cui non è il caso di ironizzare.
Il pericolo è reale, ed è stato altre volte segnalato su questo giornale. Il nostro paese può trovarsi in serie B o C, come effetto di una riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lo escluda dal novero dei nuovi membri permanenti.

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