di Ottavio Olita
Tutti li chiamano ‘profughi’ o ‘immigrati’, quando si deve mostrare il lato solidale, caritatevole della bella Italia. Definizioni non adatte a quelle 25 persone ammassate come bestie dentro la stiva di una nave e morte asfissiate. Per loro è preferibile l’uso del termine ‘clandestini’. Nella nostra immensa ipocrisia dobbiamo pur essere autorizzati a pensare che quella fine se la sono cercata. Il quarantunesimo ragazzo italiano in divisa morto in Afghanistan quasi non ha fatto più notizia; come se fosse ridotto ad un danno collaterale della nostra “missione di pace”. Ma una buona volta, vogliamo svelare il mistero dei destinatari di questa nostra operazione ‘pacifica’? Gli afghani non la vedono così, visto che, dopo agli attacchi con le bombe a bordo strada contro i mezzi blindati, sono passati ad ingaggiare veri e propri conflitti a fuoco con i nostri soldati. Nella nostra immensa ipocrisia dobbiamo pur in qualche modo rispettare quel vincolante articolo 11 della Costituzione che impone all’Italia il rifiuto della guerra come strumento per risolvere i contrasti, i dissidi internazionali: così basta cambiare il nome alla guerra e il gioco è fatto.
Non solo. E’ anche obbligatorio ignorare chi continua ad opporsi a questa logica. Abbiamo mai letto un articolo su qualche giornale, o sentito alla radio e in tv nomi e cognomi di quei parlamentari, di quegli eletti del popolo italiano che vanno in direzione contraria? Forse sono pochi, pochissimi, ma perché non farceli conoscere? Perché non avviare un progetto di grande respiro che tolga l’Italia dal ghetto dell’omologazione e dell’imitazione di tutto quello che fanno gli alleati della cosiddetta coalizione occidentale? Perché non studiare per questo Paese un ruolo politico pari alla sua grandezza culturale, che gli consenta di aggregare altri Stati in iniziative collettive sull’aiuto ai Paesi poveri, sull’integrazione, sull’accoglienza, su una nuova idea di Pianeta in cui l’unica bandiera da piantare sia quella dell’umanità?
Invece no. Il Parlamento italiano deve osservare altri obblighi, deve continuare ad occuparsi dei problemi di una sola persona, peraltro già abbondantemente tutelata. Così, la non belligeranza offerta dalle opposizioni alla maggioranza e al governo sulla manovra finanziaria è stata immediatamente ricambiata con la discussione e il voto di fiducia sul ‘processo lungo’. Valutazioni ipocrite anche di fronte a questo scenario politico.
Da cittadini democratici si rimane senza parole, soffocati, indignati, con la paura che da questo pantano non riusciremo mai ad uscire. Poi capita che la speranza ti arrivi da dove meno te lo aspetti. Da un concerto, per esempio.
A me è capitato a Dorgali, un paesino del centro Sardegna, in un luogo ancora simbolico, nonostante i continui tentativi ministeriali di smantellamento, il cortile di una scuola elementare, all’interno di una rassegna jazz che una piccola associazione di Nuoro, ‘L’Intermezzo’, organizza da ben 24 anni: ai turisti non viene offerto un facile e scontato consumo musicale, il folk ad esempio, ma un osservatorio qualificato su dove va la musica afroamericana. A metà del suo percorso la rassegna ha proposto un concerto di Daniele Silvestri.
“Io non mi sento italiano, ma per fortuna, o purtroppo, lo sono…” dice una delle sue canzoni più note. Libero l’artista di dichiararlo, ma come riesce a dimostrare questa sua convinzione? Lo fa con la sua vastissima cultura musicale, che spazia dal rock melodico a quello più duro, dalle amatissime sonorità sudamericane, alla ballate, all’umile e coraggioso omaggio ad un grande come Fabrizio De André. Non solo. Lo fa anche con la testimonianza di un forte impegno civile.
Ad un certo punto sullo schermo compaiono le immagini della strage di via D’Amelio e le successive, disperate frasi di una drammatica intervista rilasciata da Antonino Caponnetto. Daniele Silvestri non fa comizi, non perora cause, non fa dichiarazioni eclatanti. Fa musica per la mente e per le gambe, perché fa pensare e fa ballare. E tu pensi a quanti altri straordinari artisti in Italia seguono lo stesso percorso, nel cinema, nel teatro, qualcuno anche in televisione, senza ipocriti accomodamenti. Perché la politica fa tutt’altro? Perché non parla più alle intelligenze, ai cuori, ai desideri, alle volontà delle persone, ma sa solo ipotizzare alchimie di potere?
Ascoltare in Sardegna una frase come “Io non mi sento italiano” evoca l’antico spirito di autodeterminazione dei sardi, la voglia di autonomia se non proprio di indipendenza, ma mai e poi mai gli egoismi di stampo leghista. E si capisce bene, proprio qui, cosa vuol dire il seguito di quei versi, “…ma per fortuna, o purtroppo, lo sono”. Benigni che ti restituisce Dante in tutta la sua maestosa grandezza o anche i versi dell’Inno di Mameli appartiene orgogliosamente anche a questo popolo così distante geograficamente, ma anche così prossimo culturalmente all’Italia. Se la cultura, la musica, la poesia, l’arte riescono in quest’impresa, perché la politica non ne è più capace?
Se una parte significativa del mondo della politica la smettesse di perder tempo, energie, e credibilità nella discussione su questioni marginali - ad esempio, sull’uso di termini che storicamente hanno avuto significati e funzioni importantissimi, che non ha senso demonizzare a posteriori -, e si impegnasse per capire che cosa realmente, “per fortuna o purtroppo”, ci fa sentire ancora parte di un unico popolo, non bisognerebbe aspettare ogni volta una colossale manifestazione, una massiccia partecipazione alle consultazioni popolari, l’esito dei sondaggi con frequenze sempre più ravvicinate, o le invettive e le invocazioni del popolo di Internet.
Gli artisti nelle piazze e nei teatri lo sanno bene.