di Gaetano Liardo*
Che si trattasse di un omicidio di mafia lo sapevano tutti a Niscemi. Ma per poterlo definitivamente affermare si è dovuti attendere sedici lunghi anni. Era la sera del 18 ottobre del 1994 quando Saverio Liardo, conosciuto come Elio, veniva ucciso nel suo distributore di benzina nei pressi di Acate, nel ragusano. Soltanto il 14 luglio del 2010, però, il Tribunale di Catania ha stabilito con sentenza passata in giudicato, che si trattava di un omicidio di mafia. La morte di Saverio Liardo doveva essere un segnale esemplare nei confronti dei commercianti di Niscemi: “Se non pagate, farete la sua stessa fine”. Messaggio chiaro, lineare. Le indagini, tuttavia, come sempre succede in Sicilia, hanno seguito la pista passionale.
Una questione di amanti. Una questione di ingiustizia, lunga ingiustizia. Saverio Liardo era un onesto lavoratore, marito e padre di due figli. Una famiglia modello. La moglie, Cettina Saita e i due figli Francesco e Ignazio, hanno combattuto un lunga battaglia, protetti dalla loro dignità. «In questi anni – racconta la signora Saita – hanno mortificato la mia dignità di madre, di donna. Stavamo nel silenzio, nel nostro dolore». «Siamo stati una coppia serena, amorosa. Non sapevo dare una spiegazione. Mio marito era un lavoratore onesto, un onesto padre di famiglia». E' impressionante la calma che riesce a trasmettere la signora Saita. La incontro in estate a Niscemi. Con lei il figlio Francesco. Mi riceve nel salone della sua casa. Tutto lì dentro trasmette la dignità ferita di una famiglia che ha dovuto lottare una lunga battaglia per ottenere verità e giustizia. Ma che, nonostante tutto, è riuscita a trovare la forza per andare avanti.
Dopo i primi momenti di scoramento, raccontano madre e figlio, «non ci siamo più fermati». Hanno subito capito il motivo per cui Saverio Liardo era stato ucciso. «Si era rifiutato di pagare il pizzo», racconta la signora Saita che ricorda: «Mio marito diceva: “a questo non mi piegherò mai”, non è mai sceso a compromessi». Saverio Liardo non ha voluto pagare il pizzo ai boss e per questo è stato ucciso. «C'erano amici di papà – racconta Francesco Liardo - che hanno dichiarato che mio padre temeva gente che chiedeva il pizzo». Le prime indagini, gestite dai carabinieri e archiviate per due volte, tuttavia puntavano ad altro.
Dopo la prima archiviazione il caso fu riaperto in seguito ad una “soffiata” ricevuta dai carabinieri. Un'indicazione molto puntuale che, tuttavia, cadde nel vuoto. Le intercettazioni disposte registrarono la conversazione della moglie di uno di quelli indicati come il killer. La donna, parlando con una conoscente, affermava che il marito non aveva nulla a che vedere con l'omicidio. Era il 1997. Si è dovuto aspettare il 2008 affinché le indagini ripartissero. Nella giusta direzione.
Il fascicolo sull'omicidio di Saverio Liardo passa nelle mani di Fabio Scavone, magistrato presso la Direzione distrettuale antimafia di Catania. Schiavone si occupa del ragusano e conosce bene la realtà mafiosa della provincia “babba”. Ad accelerare le indagini un collaboratore di giustizia, Giuseppe Ferrera. Le sue dichiarazioni sono ritenute attendibili, nonostante alcune imperfezioni ritenute comunque secondarie dal pm. Ferrera, infatti, si autoaccusa dell'omicidio di Saverio Liardo, chiamando in causa altri due complici: Antonio Barone, nel frattempo deceduto e Francesco La Russa. Il processo, celebrato nel Tribunale di Catania nei confronti del solo Giuseppe Ferrera, va avanti speditamente. Il 14 luglio del 2010 arriva la sentenza di condanna.
Una vittoria a metà per la signora Cettina Saita e per i due figli Francesco e Ignazio. Dimezzata perchè il Tribunale non si è espresso nei confronti dell'altro killer, Francesco La Russa, nei cui confronti si procederà in separata sede. A metà perchè ancora oggi, a più di un anno dalla sentenza passata in giudicato poichè Giuseppe Ferrera ha deciso di non appellarsi, la famiglia non ha ricevuto i benefici di legge previsti per i familiari di vittima di mafia.
«Dopo 17 anni mi viene ancora difficile credere nell'antimafia», commenta amaramente Francesco. Diciassette anni di dolori e sofferenze, silenzi e omertà, e una giustizia troppo lenta ad arrivare.
*tratto da Liberainformazione