Articolo 21 - INFORMAZIONE
La sicurezza secondo il governo: le leggi inutili, gli annunci falsi, gli sprechi. E infine a Roma…
di Diego Alhaique e Raffaele Siniscalchi
Abbiamo chiesto un’intervista a Claudio Giardullo, segretario generale del sindacato di polizia Silp Cgil, per analizzare con lui i provvedimenti che il governo ha preso nel corso di questi anni per aumentare la sicurezza nel nostro paese. La sicurezza, ricordiamolo, è stata uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale del centro destra. Ma l’attualità s’impone e il tema d’apertura diventa la manifestazione di Roma e la sua gestione sotto il profilo dell’ordine pubblico.
Il grosso delle forze dell’ordine erano state schierate a difesa dei luoghi delle istituzioni, che peraltro non sono stati attaccati. Si sono così trovate di fronte una massa enorme di pacifici manifestanti e alcune centinaia di giovani dotati di sampietrini, mazze, estintori, bombe carta e altro, venuti a Roma da tutt’Italia con il compito di far fallire l’iniziativa e devastare la città (questa presenza e questi obbiettivi i servizi di sicurezza li avevano segnalati per tempo), senza che vi fosse una significativa e efficace presenza di forze dell’ordine (“agenti rari e per lo più invisibili”scrive sul Fatto quotidiano Oliviero Beha, presente sui luoghi). E istillare così nell’opinione pubblica la convinzione che le manifestazioni siano un’attività pericolosa anche per i cittadini che non vi partecipano, per i loro beni e per la città. Che, quindi, siano da proibire e, comunque, da evitare. In perfetta consonanza, il sindaco Alemanno ha disposto che a Roma non si possano svolgere manifestazioni con cortei e neanche processioni,considerate anch’esse cortei. Così saltano una manifestazione della Fiom e una processione prevista per sabato prossimo, mentre al Viminale, tra le altre cose, si pensa una sorta di riedizione della legge Reale, e a una garanzia patrimoniale che gli organizzatori delle manifestazioni dovrebbero fornire a copertura di eventuali danni. Ne’ è restata immune dagli effetti del messaggio generato dai disordini una parte del sindacato. Il segretario della Uil Luigi Angeletti ha detto:“Le manifestazioni possono e devono svolgersi in determinate piazze della città. Il diritto a manifestare non è leso dalla regolamentazione delle sue modalità. Le regole sono necessarie per conciliarlo con il diritto al lavoro e alla mobilità di altri milioni di cittadini.”
“Aver riproposto lo stesso modello di ordine pubblico messo in campo dieci anni fa a Genova con una ‘zona rossa’ blindata e da proteggere è stata una scelta politica e non tecnica” è categorico Giardullo che continua “e non si può parlare di un caso: è la seconda volta che un governo guidato da Berlusconi, di fronte a una manifestazione nella quale si sa che saranno presenti anche i violenti del blocco nero, sceglie di blindare la ‘zona rossa’ e lasciare città, poliziotti e manifestanti pacifici agli scontri coi violenti. È assolutamente giusto e necessario difendere le sedi delle istituzioni, non lo è l’idea che conti poco evitare che le città siano messe a ferro e fuoco, che sia impedito il diritto di manifestare pacificamente o, ancora, che i poliziotti in piazza servano a risolvere i problemi politici del governo”.
D.: Molti poliziotti in servizio alla manifestazione hanno lamentato la scarsità di risorse e la inadeguatezza dei mezzi a loro disposizione e alle difficili condizioni di lavoro. Concretamente cosa significa?
Giardullo: Intanto mi preme sottolineare che è stato solo grazie all’impegno e alla professionalità degli agenti assegnati alla tutela dell’ordine pubblico durante la manifestazione che sono state evitate le gravi conseguenze che la presenza di quel numeroso gruppo violento di black bloc avrebbe potuto provocare. E questo è stato riconosciuto da tutti.
E ora rispondo alla domanda: quando si rischia di finire la benzina a metà dell’anno, quando le auto si guastano e da agosto in poi non ci sono i soldi per ripararle, quando per fare un’indagine un poliziotto è costretto a usare la sua macchina privata perché non c’è quella di servizio, quando non si riparano i ripetitori di una parte della Sicilia a fortissima presenza mafiosa perché non ci sono i soldi e quindi la copertura radio è una cosa approssimativa, quando i giubbetti antiproiettile se li devono comprare i poliziotti perché quelli che hanno sono scaduti e non proteggono più o non sono funzionali e non consentono una sufficiente libertà di movimento, quando i poliziotti dei commissariati sono costretti a andare in un ufficio pubblico o in una banca che sono lì accanto a chiedere la carta per le fotocopiatrici o qualunque accessorio di cancelleria; quando succede tutto questo sul piano delle risorse è innegabile che le condizioni di lavoro siano davvero difficili. Contemporaneamente, i poliziotti hanno la sensazione che si punti a dequalificare il loro ruolo riducendo il corpo della Polizia dello Stato a quello, per così dire, di un’organizzazione di buttafuori d’immigrati, senza la preparazione né la strumentazione tecnologica e tecnica necessaria per il controllo di legalità nel campo economico-finanziario, rendendoli così incapaci di una efficace azione di contrasto nel cuore della grande illegalità che sta stremando il nostro paese.
D.: Questo testimonia di una profonda incoerenza nel centrodestra che della sicurezza aveva fatto uno dei punti di forza della sua campagna elettorale e che invece ha tagliato le risorse alle forze di polizia portandole, stando agli esempi che ha fatto, ben al disotto del limite minimo indispensabile. Questo fa dubitare dell’ effettiva volontà del governo di condurre un’efficace azione di tutela della sicurezza.
“Innanzi tutto, va registrato un pericolosissimo peggioramento dei livelli di legalità del nostro paese negli ultimi anni. Ci sono due elementi su tutti che ci fanno dire che il paese è ormai in emergenza dal punto di vista della legalità. Il primo elemento è l’andamento della corruzione nel nostro paese. Per il Governatore della Banca d’Italia e per la Corte dei conti - vedi il rapporto annuale della Banca d’Italia e il rapporto della Corte dei conti - la corruzione è ormai un freno allo sviluppo del nostro paese, e è più insidiosa e pericolosa di quando, negli anni novanta, fece da innesco al passaggio tra la prima e la seconda repubblica, concorrendo a causare il crollo di un intero sistema politico di potere del nostro paese. Nelle graduatorie internazionali sulla corruzione percepita – perché ovviamente è uno dei fenomeni che non può essere valutato con assoluta precisione – l’Italia scivola dal 40° posto al 63° posto.
E l’allarme cresce se consideriamo, insieme alla corruzione, anche il secondo fattore di peggioramento dei livelli di legalità e cioè la presenza delle mafie nel centro-nord, ormai provata e in via di un sempre crescente consolidamento e radicamento. Complice anche la crisi che dà nuove opportunità all’invadenza mafiosa dell’economia legale, perché sempre più imprenditori in difficoltà, per superare la crisi della propria azienda, accettano o addirittura ricercano l’aiuto finanziario delle organizzazioni criminali che hanno bisogno di riciclare e di investire le loro immani disponibilità finanziarie. Non sanno che questa è la fine delle loro imprese, perché l’obbiettivo ultimo della mafia non è di aiutare l’imprenditore, ma impossessarsi della sua impresa. Questa è, per così dire, “la fase 1” della penetrazione della malavita organizzata al nord, quella dell’infiltrazione economica.
Le evidenze investigative ci dicono come, ormai consolidata la propria presenza nel tessuto economico-produttivo delle regioni settentrionali, le organizzazioni criminali siano passate a una sorta di “fase 2” che consiste nel tentativo di realizzare un controllo del territorio attraverso soprattutto gli ambienti della politica a livello locale. Ormai dobbiamo dire che nel nostro paese non ci sono più isole felici riguardo alla presenza mafiosa, non ci sono regioni per le quali si possa dire che non c’è una presenza mafiosa.
Fino a qualche tempo fa si pensava che lo sviluppo e la compattezza sociale di un territorio potessero in qualche modo costituire una barriera contro la crescita di un potere mafioso in quel territorio. Sulla scorta di questa idea negli anni ’50, ‘60 e, in parte,’70 sono stati mandati molti capimafia nelle regioni del nord al soggiorno obbligato. L’idea non era fondata e così oggi nella civilissima Liguria, nella civilissima Lombardia, nel civilissimo Piemonte ci sono presenze consolidate di ‘ndrangheta e altre organizzazioni mafiose che ci dicono che il contesto sociale, culturale, economico da solo non è una barriera sufficiente contro la malavita organizzata. Quindi, o lo Stato mette in moto azioni di prevenzione e di repressione, meccanismi di controllo dei mercati e del ciclo economico in modo da ridurre drasticamente le opportunità per i capitali criminali di circolare e di infiltrare il mondo finanziario e economico, o corriamo il rischio che il metodo mafioso diventi cultura dominante. Gli appelli anche del capo dello stato da questo punto di vista non possono essere trascurati.
Questa è la priorità che ha il paese davanti. Però il paese fa fatica a capire che questa è un’emergenza perché c’è un governo che in questi anni non è stato in grado di mettere in atto un’efficace politica di contrasto dell’illegalità. Non si può pensare, in una democrazia matura, che il sistema dei controlli si possa fondare solo su polizia e magistratura. O l’intero sistema dei controlli, sui flussi finanziari, sui circuiti bancari e sulle attività economiche in ampio senso funziona realmente, modo da chiudere le strade alla circolazione di capitali criminali, oppure l’idea che le scorciatoie illegali siano più paganti che non il rispetto delle regole diventerà parte integrante della cultura del nostro paese. In questi anni, anche a causa dell’insofferenza per le regole manifestata da questo governo e da esponenti politici di primo piano di questa maggioranza, si è appannata nell’opinione pubblica l’idea fondamentale che la legalità, il rispetto delle regole e, quindi, il rispetto dei diritti devono stare al centro di qualunque ipotesi di crescita e di sviluppo nel nostro paese.
D.: Dicevamo che i partiti di governo hanno fatto campagna elettorale e conquistato la maggioranza anche battendo molto sulla sicurezza nelle città. Ma poi anche sul terreno della sicurezza “quotidiana” il governo ha fatto poco o niente. Cosa pensa il sindacato?
Giardullo: È esattamente così: ha promesso più sicurezza ma poi in realtà ha tagliato i fondi alle forze di polizia e ha coperto la propria inerzia con una politica di annunci di misure che poi o sono rimaste lettera morta o si sono dimostrate inefficaci. Le priorità del governo sono diventate non la sicurezza reale, non il contrasto a ogni forma di illegalità, a partire dalla minaccia più grave che è l’illegalità mafiosa, ma l’immigrazione, la prostituzione, la sicurezza urbana, e tutto questo è sempre connotato dalla paura, in particolare del diverso. E le risorse sono state utilizzate prevalentemente su questo versante ma con risultati davvero scarsi che non sono riusciti a rassicurare nessuno.
Allora per coprire le sue contraddizioni e i suoi fallimenti, il governo è passato alla politica del varo di leggi, per lo più inefficaci e degli annunci clamorosi.
E così, per esempio, quando era chiaro che ormai le politiche della sicurezza sul versante dell’immigrazione comunque non rassicuravano l’opinione pubblica ha introdotto il reato di ingresso clandestino. Quando sul versante del controllo del territorio i cittadini lamentavano l’assenza di risultati, annunciava le ronde, quindi la privatizzazione della sicurezza e, ancora, i militari in pattuglia con le forze di polizia nei capoluoghi di regione o di provincia. Le ronde sono fallite miseramente, non hanno avuto storia, ma sarebbero state un istituto pericolosissimo, oltre che inutile, perché è evidente che dare in mano ai dilettanti un qualche ruolo, sul versante della sicurezza, avrebbe finito per creare qualche problema ai diritti dei cittadini e alle loro garanzie reali e sarebbero stati soldi buttati. E gli stessi militari non sarebbero stati di grande utilità perché sono addestrati alla difesa del territorio non alla tutela della sicurezza dei cittadini. Questo governo è arrivato a propagandarne l’impiego dicendo che avrebbero potuto, in flagranza di reato, arrestare pure una persona. Ma questo lo può fare chiunque: mia zia può fare questa cosa nel nostro paese. Un comune cittadino che sta assistendo a un reato ha la possibilità, non il dovere, ma la possibilità di fermare quella persona e consegnarla alle forze di polizia. Esattamente quello che avrebbe potuto fare un militare: poteva fermare l’autore di un reato e consegnarlo alle forze di polizia. Si sono spesi centinaia di milioni su queste cose. Quindi questo governo, oltre che sul taglio delle risorse, anche sul piano delle strategie, ha raccontato al paese cose che non erano vere.
D.: Si è molto parlato del rischio di un alleggerimento del 41bis e del vantaggio che questo avrebbe procurato alla mafia. In effetti il 41bis non è stato toccato e tutto il gran parlare che se n’è fatto sembra essere servito a distrarre l’attenzione da quelle scelte del governo in tema di controllo, di prevenzione e di contrasto di cui abbiamo detto e che erano, queste sì, veri favori alla malavita organizzata.
Non è questo un favore molto più grande dell’alleggerimento del 41bis?
Giardullo: Non c’è dubbio. Perché se non metti in campo sistemi di controllo né sul versante specifico della legalità economica, per le cose che dicevamo prima, né sul versante del contrasto delle organizzazioni mafiose nel territorio, cioè del contrasto del potere che hanno nel territorio le organizzazioni mafiose, lasci campo libero alle loro incursioni.
D.: È innegabile però che dei successi sono stati ottenuti sul terreno della lotta alla grande criminalità con la cattura di alcuni grandi latitanti.
Giardullo: I risultati di quest’attività sono stati molto enfatizzati dal governo. Questo della cattura dai grandi boss della malavita è un settore molto difficile. Chi ha ottenuto risultati su questo versante specie da parte delle forze di polizia lo ha fatto a rischio della propria vita, quindi guai a sottovalutare l’importanza che ha la cattura dei latitanti. Ma intanto va detto che sicuramente il governo non può ascrivere a sé il merito della cattura dei latitanti, perché quei latitanti sono stati catturati mentre il governo riduceva le risorse destinate anche a coloro che svolgevano questo lavoro.
Sta diventando ormai sentire comune negli ambienti delle forze di polizia pensare e qualche volta dire che quei risultati sono stati ottenuti nonostante l’azione di governo e non grazie all’azione di governo. Che non può appunto accreditarsi questi risultati. E ancora: la guerra, la lotta, il contrasto alla criminalità mafiosa si fanno con la cattura dei latitanti ma si fanno anche e soprattutto spezzando la rete di potere che le organizzazioni mafiose hanno nel territorio e questa cosa non è stata fatta. Faccio un esempio piccolo, recentissimo: il codice antimafia. Il nuovo codice antimafia previsto dalla legge dell’estate scorsa non prevede, per esempio, una versione aggiornata del voto di scambio, ma una sua versione ancora ottocentesca: una persona che fa politica, dà soldi alla mafia che gli garantisce un certo numero di voti. In realtà questo meccanismo non esiste più. Il politico, o asserito tale, non dà soldi alla mafia e la mafia non vuole soldi, vuole un altra cosa: vuole processi addomesticati, vuole un basso livello di controllo da parte della forze di polizia, vuole un basso livello di controllo di tutti gli aspetti economici e finanziari, vuole scelte concrete che vadano a vantaggio delle imprese governate dalla mafia. Questo vuole. E quel modello di reato di voto di scambio che c’è nel codice antimafia è inutilizzabile: ce lo dicono i magistrati impegnati su quel versante.
Allora, in realtà, nulla di quanto sarebbe stato necessario per combattere la malavita organizzata è stato fatto e quello che sta succedendo al nord soprattutto - stiamo parlando di zone che non hanno una presenza storica e consolidata di mafia - lo dice con chiarezza: laddove non c’erano state in passato organizzazioni mafiose, al massimo singole bande e gruppi che erano andati via dai loro territori per motivi vari - soggiorno obbligato, guerra di mafia o altri motivi - oggi c’è un’espansione del controllo del territorio da parte delle mafie, segno che quell’aspetto che è fondamentale per la loro esistenza, cioè una rete di potere territoriale, non è stato combattuto, né per via d’incremento delle risorse né per via strategica, perché si è scelto di puntare esclusivamente sulla cattura dei grandi latitanti e sulla sicurezza urbana, ma nella versione che dicevamo prima, tutta fondata sul contrasto della prostituzione di strada, tutta fondata sul contrasto dell’immigrazione, punto.
Tutto questo ha lasciato campo libero a una crescita della presenza mafiosa anche in zone come Roma i cui effetti vediamo in queste settimane. E anche qui: le ricette avanzate in questi giorni a Roma non convincono, vanno ancora nella direzione di vecchie piccole ricette che servono a parlare a sfere emotive del cervello dei cittadini: ancora una volta si parla di contrasto della prostituzione, di impiego della vigilanza privata per fare segnalazioni alle forze di polizia sull’esistenza di reati nel territorio. Ma già tutto questo esisteva: si annuncia quello che già esiste, ecco ancora lì la politica di facciata e l’annuncio inconsistente.
In una città come Roma servirebbe rafforzare organismi come la squadra mobile, che svolge un lavoro nella città col massimo impegno e al massimo delle sue possibilità; come i commissariati che sono il presidio dello stato in un territorio enorme come la città. Questo si dovrebbe fare. E strategicamente guardare, sì anche alla vivibilità, all’ordine nella città anche su versanti come la prostituzione ma non capovolgere le priorità. Bisognerebbe pensare prima alla criminalità organizzata, alla criminalità di strada e anche a quegli aspetti, ovviamente, di disordine sociale che non possono essere sottovalutati. Qui si sta facendo il contrario.
D.: Anche perché le prostitute sono il prodotto di un traffico di esseri umani e sono soggette alle regole di gruppi criminali.
Giardullo: Sì, la prostituzione autoctona, diciamo così, è limitatissima. Riguarda alcune fasce con una clientela particolarmente agiata. La prostituzione in strada non riguarda più le italiane. Le prostitute che sono nelle città italiane sono il frutto dell’attività di tratta internazionale delle persone. Lì andrebbe il primo argine, il primo impegno. Per dirla come si diceva qualche anno fa: per combattere la mafia devi combattere anche la tratta delle persone e per combattere la tratta delle persone devi combattere anche la mafia. Se tu non fai nessuna delle due, in realtà ti occupi solo degli effetti, con un uso di risorse che è irresponsabile perché in campo ci sono, anche e soprattutto, questioni molto più delicate, come la violenza nelle strade che si è ormai sviluppata in una città come Roma e come la presenza della criminalità organizzata.
E la cosa che mi allarma di più è che alle preoccupazioni dei cittadini, le risposte del governo e, qui a Roma, del sindaco continuano a insistere soltanto su prostituzione, su immigrazione, e sulla vigilanza privata che dovrebbe impegnarsi di più nel segnalare i reati. Ma il problema non sono le segnalazioni, che sono più che sufficienti, ma il mancato potenziamento del dispositivo delle forze di polizia, che possa fare contrasto nel territorio alla presenza mafiosa e alle questioni di vivibilità della città.
C’è una domanda crescente di sicurezza e anche di legalità nel nostro paese, ma le risposte, nella più nobile delle ipotesi sono sbagliate e nella peggiore sono l’espressione di una strumentalizzazione politica cinica e irresponsabile.
Io insisto: questo paese ha discusso per circa due anni sulle ronde mentre si rimuoveva il tema dell’invadenza mafiosa nelle aree più produttive di questo paese. Tutto questo capita soltanto per incapacità di leggere i fenomeni o perché ci vuole investimento, capacità strategica, tempi di realizzazione di alcuni obbiettivi che non corrispondono ai tempi politici e elettorali di questo governo e di questa maggioranza?
D.: Parte cospicua del sistema dell’informazione è più orientata a enfatizzare gli episodi capaci di creare allarme e accrescere l’insicurezza dei cittadini che a fornire gli elementi per informare sulla reale natura del problema sicurezza. Qual è il giudizio del sindacato?
Giardullo: Senza generalizzare direi che c’è una parte dell’informazione che è funzionale agli obbiettivi politici della maggioranza, che vuole appunto depistare l’opinione pubblica dai problemi veri. Poi c’è una parte dell’informazione che, secondo me, è troppo attenta alla parte finale, agli effetti, e meno propensa a affrontare il nodo delle cause strutturali e dei pericoli che ci sono dietro a certe strategie di lungo periodo. E c’è un’altra parte dei mezzi di comunicazione che, siccome sa che l’opinione pubblica è più attratta dai fatti di cronaca nera, coglie soltanto questo aspetto. In generale, si può dire che il tema della sicurezza non viene affrontato in maniera sistematica e in tutti i suoi risvolti, e resta in ombra il ruolo che ha l’illegalità, la corruzione, la presenza delle mafie al nord.
Un altro tema poco sentito dall’informazione è quello della grande evasione fiscale. I magistrati ci dicono che nei paradisi fiscali gl’imprenditori italiani sono tra quelli presenti in maggior numero. Questo dal punto di vista del sistema paese e delle sue prospettive è un tema cruciale quanto sottovalutato. Purtroppo il contrasto alla grande evasione fiscale, sul piano normativo, sul piano operativo e sul piano dei controlli è gracile e esitante al punto che la gente si va sempre più convincendo che l’illegalità paghi. Dobbiamo e possiamo ancora intervenire perché non si consolidi un modello di società fondato sulla convinzione che sia l’illegalità che paga e non il rispetto delle leggi.
D.: Poca volontà politica e poche risorse buona parte delle quali, così si dice, vengono impiegate per le scorte. È vero?
R.: In Italia ci sono ancora centinaia di scorte sulla cui utilità si può avere qualche perplessità. Il vero problema della scorta sorge più che quando viene assegnata – perché se ci si pone il problema vuol dire che ci sono condizioni di rischio grave, attuale ecc. – quando deve essere abolita e cioè quando a parere degli organi di polizia non ci sono più le condizioni di pericolo che ne giustificano la spesa. E allora lì scattano le pressioni politiche per evitarne la revoca, perché la scorta ormai viene vista come uno status symbol anche dal punto di vista del ruolo istituzionale che si svolge. In realtà, si dovrebbe attribuire agli organi di polizia un’autonomia nel valutare se quella scorta sia ancora giustificata o no, con tutte le responsabilità che comporta il prendere questa decisione. Questo è il paese in cui per revocare una scorta, qualcuno rischia il proprio posto o il ruolo che svolge. Alle scorte ordinarie, poi, bisogna aggiungere le scorte giornaliere, quando una persona deve essere scortata per un giorno. Anche queste sono in numero rilevante. E così, a Roma il numero di scorte da gestire è veramente enorme. E i commissariati, impoveriti di mezzi e di uomini, faticano sempre di più a controllare adeguatamente il territorio.
D.: All’inizio dell’ intervista ha citato il G8 di cui è caduto il decennale nei mesi scorsi. Quali sono le analogie con la manifestazione di Roma?
R.: Il G8 è stato una ferita terribile nella società italiana che andava rimarginata e andava evitato che il solco tra società civile e forze di polizia si potesse ampliare, perché questo riguardava anche la democrazia del paese e qualcuno nel governo di allora lavorava perché questo solco si ampliasse.
Però non si capisce Genova se si trascura la dimensione politica del problema. Il governo di Berlusconi del 2001 ha la sensazione che l’autunno che segue sarà un autunno caldissimo, perché c’era in pentola una finanziaria lacrime e sangue. Allora l’obbiettivo politico di quel governo era delegittimare la piazza. Mandare un messaggio ai moderati “la piazza è pericolosa in sé, tenetevi lontano dalla piazza”. E allora si capisce il modello di ordine pubblico che fu realizzato a Genova, con i ministri che giravano nelle sale operative: un ordine pubblico pesante, modello militare di tipo repressivo che aveva come nemico il manifestante. Un modello che ha fallito miseramente rispetto a chi, i veri violenti della situazione che erano capaci di tecniche di vera guerriglia urbana: i black block che arrivavano, distruggevano… Questi non sono solo provocatori: l’obbiettivo loro è fare violenza
D.: È fondato il sospetto che viene avanzato che siano strumento di forze, diciamo così, occulte?
Giardullo: Non mi avventuro su questo terreno, però dico questo: capacità di tecniche di guerriglia, grandissima compartimentazione tra di loro - loro comunicano solo via internet -, non si conoscono personalmente, e sono travisati. Sono tutti meccanismi che fanno di questi gruppi, appunto, gruppi che possono essere al servizio di qualunque strategia; gruppi che hanno l’evidente obbiettivo di far degenerare qualunque manifestazione pacifica e forse anche di spostare l’attenzione dall’oggetto, dal merito delle manifestazioni, dagli obbiettivi della manifestazione alla violenza cui la consegnano. Del resto ricordo che ci fu una dichiarazione di Cossiga che proprio in quei giorni doveva incontrare Berlusconi che diceva più o meno così: “se il presidente del consiglio mi dovesse chiedere consigli su Genova io gli dirò lascia distruggere la città poi saranno i cittadini che ti chiederanno di entrare in campo coi carrarmati”. Ecco, questo era il modello di ordine pubblico che rispondeva però a un obbiettivo politico di quel governo: delegittimare la piazza, renderla violenta “a prescindere” per tenere lontani i moderati in quell’autunno. Se si coglie quell’aspetto allora si capisce perché il modello fu quello. Gli errori furono incomprensibili: reparti che dovevano andare da una parte finivano dall’altra; il Tuscania, che quando richiedono il suo intervento urgente, fa per uscire dal parcheggio dov’era in attesa di entrare in azione, non mi ricordo se era nel cortile del carcere, ma sbaglia e esce dopo venti minuti e va nella direzione sbagliata. La maggior parte dei funzionari e degli ufficiali che stavano lì non conosceva bene la città.
D.: Cosa suggerì quell’esperienza?
Giardullo: Da quel momento in poi noi abbiamo imposto il principio che l’autorità locale di pubblica sicurezza è responsabile di quello che succede. Da lì poi siamo riusciti a affermare intanto l’idea della preparazione, della formazione, ma la formazione funzionale al modello preventivo: non più i manganelli battuti sugli scudi per intimorire chi hai davanti ma capacità di controllare la forza, ma prevenzione, piccoli nuclei, dialogo con gli organizzatori. Uso controllato della forza. Da quel momento questo è stato il paradigma. È stata aperta una scuola di formazione per l’ordine pubblico in polizia. È a Nettuno.
D.: Poi c’è stata la prova di Firenze che già metteva in pratica questi principi
Giardullo: Infatti questo io uso dire generalmente: Genova è una ferita ma Firenze che è già esattamente questo modello, ha dimostrato che è possibile nel nostro paese garantire pacificamente alcune manifestazioni. A Firenze non ci fu un’esposizione muscolare della forza. I gruppi, i contingenti furono messi un po’ in disparte, non c’era il contatto diretto con i manifestanti, non solo non battevano i manganelli sugli scudi ma non indossarono, a meno di esigenze immediate, non indossarono preventivamente il casco, tutti quei meccanismi che avrebbero fatto capire che l’obiettivo del dispositivo non era dare in caso di scontro un messaggio esemplare, l’obiettivo è e rimane tutt’oggi per la polizia evitare gl’incidenti. Quando si evitano gl’incidenti, quando non succede niente per la polizia è una buona giornata e è un buon risultato per il paese. Non quando ci sono gli scontri e tu dai una risposta ‘esemplare’.
D.: Dopo Genova quale fu la dialettica tra il sindacato e i responsabili politici e tecnici dell’ordine pubblico?
Giardullo: Noi abbiamo iniziato da subito e devo dire che nel dipartimento fu subito aperta una commissione per studiare quali erano i correttivi da apportare all’ordine pubblico. Noi fummo sentiti, furono accolte moltissime delle cose che sto dicendo: uso controllato della forza, formazione permanente, rapporto con gli organizzatori, prevenzione e non repressione, messaggi che fanno capire che l’obbiettivo è la prevenzione e non lo scontro sono esattamente proposte che facemmo noi e che noi ascriviamo all’iniziativa del mondo sindacale. Vedete, la formazione è fondamentale, è fondamentale che tutti coloro che stanno in ordine pubblico, da chi ha la responsabilità al più giovane degli esecutori, seguano metodiche analoghe, abbiano l’abitudine a reazioni che non possono essere frutto di un ragionamento perché l’ordine pubblico spesso non ti da il tempo di ragionare, si realizza tutto nell’ambito di pochi minuti, e quasi istintivamente tu devi fare le scelte giuste: prevenzione e non repressione, dialogo e non scontro, tu devi essere abituato a farlo. Per essere abituato occorre la formazione.
Ebbene la formazione è esattamente la prima voce che è stata tagliata in questi anni dal governo di centrodestra.
Il grosso delle forze dell’ordine erano state schierate a difesa dei luoghi delle istituzioni, che peraltro non sono stati attaccati. Si sono così trovate di fronte una massa enorme di pacifici manifestanti e alcune centinaia di giovani dotati di sampietrini, mazze, estintori, bombe carta e altro, venuti a Roma da tutt’Italia con il compito di far fallire l’iniziativa e devastare la città (questa presenza e questi obbiettivi i servizi di sicurezza li avevano segnalati per tempo), senza che vi fosse una significativa e efficace presenza di forze dell’ordine (“agenti rari e per lo più invisibili”scrive sul Fatto quotidiano Oliviero Beha, presente sui luoghi). E istillare così nell’opinione pubblica la convinzione che le manifestazioni siano un’attività pericolosa anche per i cittadini che non vi partecipano, per i loro beni e per la città. Che, quindi, siano da proibire e, comunque, da evitare. In perfetta consonanza, il sindaco Alemanno ha disposto che a Roma non si possano svolgere manifestazioni con cortei e neanche processioni,considerate anch’esse cortei. Così saltano una manifestazione della Fiom e una processione prevista per sabato prossimo, mentre al Viminale, tra le altre cose, si pensa una sorta di riedizione della legge Reale, e a una garanzia patrimoniale che gli organizzatori delle manifestazioni dovrebbero fornire a copertura di eventuali danni. Ne’ è restata immune dagli effetti del messaggio generato dai disordini una parte del sindacato. Il segretario della Uil Luigi Angeletti ha detto:“Le manifestazioni possono e devono svolgersi in determinate piazze della città. Il diritto a manifestare non è leso dalla regolamentazione delle sue modalità. Le regole sono necessarie per conciliarlo con il diritto al lavoro e alla mobilità di altri milioni di cittadini.”
“Aver riproposto lo stesso modello di ordine pubblico messo in campo dieci anni fa a Genova con una ‘zona rossa’ blindata e da proteggere è stata una scelta politica e non tecnica” è categorico Giardullo che continua “e non si può parlare di un caso: è la seconda volta che un governo guidato da Berlusconi, di fronte a una manifestazione nella quale si sa che saranno presenti anche i violenti del blocco nero, sceglie di blindare la ‘zona rossa’ e lasciare città, poliziotti e manifestanti pacifici agli scontri coi violenti. È assolutamente giusto e necessario difendere le sedi delle istituzioni, non lo è l’idea che conti poco evitare che le città siano messe a ferro e fuoco, che sia impedito il diritto di manifestare pacificamente o, ancora, che i poliziotti in piazza servano a risolvere i problemi politici del governo”.
D.: Molti poliziotti in servizio alla manifestazione hanno lamentato la scarsità di risorse e la inadeguatezza dei mezzi a loro disposizione e alle difficili condizioni di lavoro. Concretamente cosa significa?
Giardullo: Intanto mi preme sottolineare che è stato solo grazie all’impegno e alla professionalità degli agenti assegnati alla tutela dell’ordine pubblico durante la manifestazione che sono state evitate le gravi conseguenze che la presenza di quel numeroso gruppo violento di black bloc avrebbe potuto provocare. E questo è stato riconosciuto da tutti.
E ora rispondo alla domanda: quando si rischia di finire la benzina a metà dell’anno, quando le auto si guastano e da agosto in poi non ci sono i soldi per ripararle, quando per fare un’indagine un poliziotto è costretto a usare la sua macchina privata perché non c’è quella di servizio, quando non si riparano i ripetitori di una parte della Sicilia a fortissima presenza mafiosa perché non ci sono i soldi e quindi la copertura radio è una cosa approssimativa, quando i giubbetti antiproiettile se li devono comprare i poliziotti perché quelli che hanno sono scaduti e non proteggono più o non sono funzionali e non consentono una sufficiente libertà di movimento, quando i poliziotti dei commissariati sono costretti a andare in un ufficio pubblico o in una banca che sono lì accanto a chiedere la carta per le fotocopiatrici o qualunque accessorio di cancelleria; quando succede tutto questo sul piano delle risorse è innegabile che le condizioni di lavoro siano davvero difficili. Contemporaneamente, i poliziotti hanno la sensazione che si punti a dequalificare il loro ruolo riducendo il corpo della Polizia dello Stato a quello, per così dire, di un’organizzazione di buttafuori d’immigrati, senza la preparazione né la strumentazione tecnologica e tecnica necessaria per il controllo di legalità nel campo economico-finanziario, rendendoli così incapaci di una efficace azione di contrasto nel cuore della grande illegalità che sta stremando il nostro paese.
D.: Questo testimonia di una profonda incoerenza nel centrodestra che della sicurezza aveva fatto uno dei punti di forza della sua campagna elettorale e che invece ha tagliato le risorse alle forze di polizia portandole, stando agli esempi che ha fatto, ben al disotto del limite minimo indispensabile. Questo fa dubitare dell’ effettiva volontà del governo di condurre un’efficace azione di tutela della sicurezza.
“Innanzi tutto, va registrato un pericolosissimo peggioramento dei livelli di legalità del nostro paese negli ultimi anni. Ci sono due elementi su tutti che ci fanno dire che il paese è ormai in emergenza dal punto di vista della legalità. Il primo elemento è l’andamento della corruzione nel nostro paese. Per il Governatore della Banca d’Italia e per la Corte dei conti - vedi il rapporto annuale della Banca d’Italia e il rapporto della Corte dei conti - la corruzione è ormai un freno allo sviluppo del nostro paese, e è più insidiosa e pericolosa di quando, negli anni novanta, fece da innesco al passaggio tra la prima e la seconda repubblica, concorrendo a causare il crollo di un intero sistema politico di potere del nostro paese. Nelle graduatorie internazionali sulla corruzione percepita – perché ovviamente è uno dei fenomeni che non può essere valutato con assoluta precisione – l’Italia scivola dal 40° posto al 63° posto.
E l’allarme cresce se consideriamo, insieme alla corruzione, anche il secondo fattore di peggioramento dei livelli di legalità e cioè la presenza delle mafie nel centro-nord, ormai provata e in via di un sempre crescente consolidamento e radicamento. Complice anche la crisi che dà nuove opportunità all’invadenza mafiosa dell’economia legale, perché sempre più imprenditori in difficoltà, per superare la crisi della propria azienda, accettano o addirittura ricercano l’aiuto finanziario delle organizzazioni criminali che hanno bisogno di riciclare e di investire le loro immani disponibilità finanziarie. Non sanno che questa è la fine delle loro imprese, perché l’obbiettivo ultimo della mafia non è di aiutare l’imprenditore, ma impossessarsi della sua impresa. Questa è, per così dire, “la fase 1” della penetrazione della malavita organizzata al nord, quella dell’infiltrazione economica.
Le evidenze investigative ci dicono come, ormai consolidata la propria presenza nel tessuto economico-produttivo delle regioni settentrionali, le organizzazioni criminali siano passate a una sorta di “fase 2” che consiste nel tentativo di realizzare un controllo del territorio attraverso soprattutto gli ambienti della politica a livello locale. Ormai dobbiamo dire che nel nostro paese non ci sono più isole felici riguardo alla presenza mafiosa, non ci sono regioni per le quali si possa dire che non c’è una presenza mafiosa.
Fino a qualche tempo fa si pensava che lo sviluppo e la compattezza sociale di un territorio potessero in qualche modo costituire una barriera contro la crescita di un potere mafioso in quel territorio. Sulla scorta di questa idea negli anni ’50, ‘60 e, in parte,’70 sono stati mandati molti capimafia nelle regioni del nord al soggiorno obbligato. L’idea non era fondata e così oggi nella civilissima Liguria, nella civilissima Lombardia, nel civilissimo Piemonte ci sono presenze consolidate di ‘ndrangheta e altre organizzazioni mafiose che ci dicono che il contesto sociale, culturale, economico da solo non è una barriera sufficiente contro la malavita organizzata. Quindi, o lo Stato mette in moto azioni di prevenzione e di repressione, meccanismi di controllo dei mercati e del ciclo economico in modo da ridurre drasticamente le opportunità per i capitali criminali di circolare e di infiltrare il mondo finanziario e economico, o corriamo il rischio che il metodo mafioso diventi cultura dominante. Gli appelli anche del capo dello stato da questo punto di vista non possono essere trascurati.
Questa è la priorità che ha il paese davanti. Però il paese fa fatica a capire che questa è un’emergenza perché c’è un governo che in questi anni non è stato in grado di mettere in atto un’efficace politica di contrasto dell’illegalità. Non si può pensare, in una democrazia matura, che il sistema dei controlli si possa fondare solo su polizia e magistratura. O l’intero sistema dei controlli, sui flussi finanziari, sui circuiti bancari e sulle attività economiche in ampio senso funziona realmente, modo da chiudere le strade alla circolazione di capitali criminali, oppure l’idea che le scorciatoie illegali siano più paganti che non il rispetto delle regole diventerà parte integrante della cultura del nostro paese. In questi anni, anche a causa dell’insofferenza per le regole manifestata da questo governo e da esponenti politici di primo piano di questa maggioranza, si è appannata nell’opinione pubblica l’idea fondamentale che la legalità, il rispetto delle regole e, quindi, il rispetto dei diritti devono stare al centro di qualunque ipotesi di crescita e di sviluppo nel nostro paese.
D.: Dicevamo che i partiti di governo hanno fatto campagna elettorale e conquistato la maggioranza anche battendo molto sulla sicurezza nelle città. Ma poi anche sul terreno della sicurezza “quotidiana” il governo ha fatto poco o niente. Cosa pensa il sindacato?
Giardullo: È esattamente così: ha promesso più sicurezza ma poi in realtà ha tagliato i fondi alle forze di polizia e ha coperto la propria inerzia con una politica di annunci di misure che poi o sono rimaste lettera morta o si sono dimostrate inefficaci. Le priorità del governo sono diventate non la sicurezza reale, non il contrasto a ogni forma di illegalità, a partire dalla minaccia più grave che è l’illegalità mafiosa, ma l’immigrazione, la prostituzione, la sicurezza urbana, e tutto questo è sempre connotato dalla paura, in particolare del diverso. E le risorse sono state utilizzate prevalentemente su questo versante ma con risultati davvero scarsi che non sono riusciti a rassicurare nessuno.
Allora per coprire le sue contraddizioni e i suoi fallimenti, il governo è passato alla politica del varo di leggi, per lo più inefficaci e degli annunci clamorosi.
E così, per esempio, quando era chiaro che ormai le politiche della sicurezza sul versante dell’immigrazione comunque non rassicuravano l’opinione pubblica ha introdotto il reato di ingresso clandestino. Quando sul versante del controllo del territorio i cittadini lamentavano l’assenza di risultati, annunciava le ronde, quindi la privatizzazione della sicurezza e, ancora, i militari in pattuglia con le forze di polizia nei capoluoghi di regione o di provincia. Le ronde sono fallite miseramente, non hanno avuto storia, ma sarebbero state un istituto pericolosissimo, oltre che inutile, perché è evidente che dare in mano ai dilettanti un qualche ruolo, sul versante della sicurezza, avrebbe finito per creare qualche problema ai diritti dei cittadini e alle loro garanzie reali e sarebbero stati soldi buttati. E gli stessi militari non sarebbero stati di grande utilità perché sono addestrati alla difesa del territorio non alla tutela della sicurezza dei cittadini. Questo governo è arrivato a propagandarne l’impiego dicendo che avrebbero potuto, in flagranza di reato, arrestare pure una persona. Ma questo lo può fare chiunque: mia zia può fare questa cosa nel nostro paese. Un comune cittadino che sta assistendo a un reato ha la possibilità, non il dovere, ma la possibilità di fermare quella persona e consegnarla alle forze di polizia. Esattamente quello che avrebbe potuto fare un militare: poteva fermare l’autore di un reato e consegnarlo alle forze di polizia. Si sono spesi centinaia di milioni su queste cose. Quindi questo governo, oltre che sul taglio delle risorse, anche sul piano delle strategie, ha raccontato al paese cose che non erano vere.
D.: Si è molto parlato del rischio di un alleggerimento del 41bis e del vantaggio che questo avrebbe procurato alla mafia. In effetti il 41bis non è stato toccato e tutto il gran parlare che se n’è fatto sembra essere servito a distrarre l’attenzione da quelle scelte del governo in tema di controllo, di prevenzione e di contrasto di cui abbiamo detto e che erano, queste sì, veri favori alla malavita organizzata.
Non è questo un favore molto più grande dell’alleggerimento del 41bis?
Giardullo: Non c’è dubbio. Perché se non metti in campo sistemi di controllo né sul versante specifico della legalità economica, per le cose che dicevamo prima, né sul versante del contrasto delle organizzazioni mafiose nel territorio, cioè del contrasto del potere che hanno nel territorio le organizzazioni mafiose, lasci campo libero alle loro incursioni.
D.: È innegabile però che dei successi sono stati ottenuti sul terreno della lotta alla grande criminalità con la cattura di alcuni grandi latitanti.
Giardullo: I risultati di quest’attività sono stati molto enfatizzati dal governo. Questo della cattura dai grandi boss della malavita è un settore molto difficile. Chi ha ottenuto risultati su questo versante specie da parte delle forze di polizia lo ha fatto a rischio della propria vita, quindi guai a sottovalutare l’importanza che ha la cattura dei latitanti. Ma intanto va detto che sicuramente il governo non può ascrivere a sé il merito della cattura dei latitanti, perché quei latitanti sono stati catturati mentre il governo riduceva le risorse destinate anche a coloro che svolgevano questo lavoro.
Sta diventando ormai sentire comune negli ambienti delle forze di polizia pensare e qualche volta dire che quei risultati sono stati ottenuti nonostante l’azione di governo e non grazie all’azione di governo. Che non può appunto accreditarsi questi risultati. E ancora: la guerra, la lotta, il contrasto alla criminalità mafiosa si fanno con la cattura dei latitanti ma si fanno anche e soprattutto spezzando la rete di potere che le organizzazioni mafiose hanno nel territorio e questa cosa non è stata fatta. Faccio un esempio piccolo, recentissimo: il codice antimafia. Il nuovo codice antimafia previsto dalla legge dell’estate scorsa non prevede, per esempio, una versione aggiornata del voto di scambio, ma una sua versione ancora ottocentesca: una persona che fa politica, dà soldi alla mafia che gli garantisce un certo numero di voti. In realtà questo meccanismo non esiste più. Il politico, o asserito tale, non dà soldi alla mafia e la mafia non vuole soldi, vuole un altra cosa: vuole processi addomesticati, vuole un basso livello di controllo da parte della forze di polizia, vuole un basso livello di controllo di tutti gli aspetti economici e finanziari, vuole scelte concrete che vadano a vantaggio delle imprese governate dalla mafia. Questo vuole. E quel modello di reato di voto di scambio che c’è nel codice antimafia è inutilizzabile: ce lo dicono i magistrati impegnati su quel versante.
Allora, in realtà, nulla di quanto sarebbe stato necessario per combattere la malavita organizzata è stato fatto e quello che sta succedendo al nord soprattutto - stiamo parlando di zone che non hanno una presenza storica e consolidata di mafia - lo dice con chiarezza: laddove non c’erano state in passato organizzazioni mafiose, al massimo singole bande e gruppi che erano andati via dai loro territori per motivi vari - soggiorno obbligato, guerra di mafia o altri motivi - oggi c’è un’espansione del controllo del territorio da parte delle mafie, segno che quell’aspetto che è fondamentale per la loro esistenza, cioè una rete di potere territoriale, non è stato combattuto, né per via d’incremento delle risorse né per via strategica, perché si è scelto di puntare esclusivamente sulla cattura dei grandi latitanti e sulla sicurezza urbana, ma nella versione che dicevamo prima, tutta fondata sul contrasto della prostituzione di strada, tutta fondata sul contrasto dell’immigrazione, punto.
Tutto questo ha lasciato campo libero a una crescita della presenza mafiosa anche in zone come Roma i cui effetti vediamo in queste settimane. E anche qui: le ricette avanzate in questi giorni a Roma non convincono, vanno ancora nella direzione di vecchie piccole ricette che servono a parlare a sfere emotive del cervello dei cittadini: ancora una volta si parla di contrasto della prostituzione, di impiego della vigilanza privata per fare segnalazioni alle forze di polizia sull’esistenza di reati nel territorio. Ma già tutto questo esisteva: si annuncia quello che già esiste, ecco ancora lì la politica di facciata e l’annuncio inconsistente.
In una città come Roma servirebbe rafforzare organismi come la squadra mobile, che svolge un lavoro nella città col massimo impegno e al massimo delle sue possibilità; come i commissariati che sono il presidio dello stato in un territorio enorme come la città. Questo si dovrebbe fare. E strategicamente guardare, sì anche alla vivibilità, all’ordine nella città anche su versanti come la prostituzione ma non capovolgere le priorità. Bisognerebbe pensare prima alla criminalità organizzata, alla criminalità di strada e anche a quegli aspetti, ovviamente, di disordine sociale che non possono essere sottovalutati. Qui si sta facendo il contrario.
D.: Anche perché le prostitute sono il prodotto di un traffico di esseri umani e sono soggette alle regole di gruppi criminali.
Giardullo: Sì, la prostituzione autoctona, diciamo così, è limitatissima. Riguarda alcune fasce con una clientela particolarmente agiata. La prostituzione in strada non riguarda più le italiane. Le prostitute che sono nelle città italiane sono il frutto dell’attività di tratta internazionale delle persone. Lì andrebbe il primo argine, il primo impegno. Per dirla come si diceva qualche anno fa: per combattere la mafia devi combattere anche la tratta delle persone e per combattere la tratta delle persone devi combattere anche la mafia. Se tu non fai nessuna delle due, in realtà ti occupi solo degli effetti, con un uso di risorse che è irresponsabile perché in campo ci sono, anche e soprattutto, questioni molto più delicate, come la violenza nelle strade che si è ormai sviluppata in una città come Roma e come la presenza della criminalità organizzata.
E la cosa che mi allarma di più è che alle preoccupazioni dei cittadini, le risposte del governo e, qui a Roma, del sindaco continuano a insistere soltanto su prostituzione, su immigrazione, e sulla vigilanza privata che dovrebbe impegnarsi di più nel segnalare i reati. Ma il problema non sono le segnalazioni, che sono più che sufficienti, ma il mancato potenziamento del dispositivo delle forze di polizia, che possa fare contrasto nel territorio alla presenza mafiosa e alle questioni di vivibilità della città.
C’è una domanda crescente di sicurezza e anche di legalità nel nostro paese, ma le risposte, nella più nobile delle ipotesi sono sbagliate e nella peggiore sono l’espressione di una strumentalizzazione politica cinica e irresponsabile.
Io insisto: questo paese ha discusso per circa due anni sulle ronde mentre si rimuoveva il tema dell’invadenza mafiosa nelle aree più produttive di questo paese. Tutto questo capita soltanto per incapacità di leggere i fenomeni o perché ci vuole investimento, capacità strategica, tempi di realizzazione di alcuni obbiettivi che non corrispondono ai tempi politici e elettorali di questo governo e di questa maggioranza?
D.: Parte cospicua del sistema dell’informazione è più orientata a enfatizzare gli episodi capaci di creare allarme e accrescere l’insicurezza dei cittadini che a fornire gli elementi per informare sulla reale natura del problema sicurezza. Qual è il giudizio del sindacato?
Giardullo: Senza generalizzare direi che c’è una parte dell’informazione che è funzionale agli obbiettivi politici della maggioranza, che vuole appunto depistare l’opinione pubblica dai problemi veri. Poi c’è una parte dell’informazione che, secondo me, è troppo attenta alla parte finale, agli effetti, e meno propensa a affrontare il nodo delle cause strutturali e dei pericoli che ci sono dietro a certe strategie di lungo periodo. E c’è un’altra parte dei mezzi di comunicazione che, siccome sa che l’opinione pubblica è più attratta dai fatti di cronaca nera, coglie soltanto questo aspetto. In generale, si può dire che il tema della sicurezza non viene affrontato in maniera sistematica e in tutti i suoi risvolti, e resta in ombra il ruolo che ha l’illegalità, la corruzione, la presenza delle mafie al nord.
Un altro tema poco sentito dall’informazione è quello della grande evasione fiscale. I magistrati ci dicono che nei paradisi fiscali gl’imprenditori italiani sono tra quelli presenti in maggior numero. Questo dal punto di vista del sistema paese e delle sue prospettive è un tema cruciale quanto sottovalutato. Purtroppo il contrasto alla grande evasione fiscale, sul piano normativo, sul piano operativo e sul piano dei controlli è gracile e esitante al punto che la gente si va sempre più convincendo che l’illegalità paghi. Dobbiamo e possiamo ancora intervenire perché non si consolidi un modello di società fondato sulla convinzione che sia l’illegalità che paga e non il rispetto delle leggi.
D.: Poca volontà politica e poche risorse buona parte delle quali, così si dice, vengono impiegate per le scorte. È vero?
R.: In Italia ci sono ancora centinaia di scorte sulla cui utilità si può avere qualche perplessità. Il vero problema della scorta sorge più che quando viene assegnata – perché se ci si pone il problema vuol dire che ci sono condizioni di rischio grave, attuale ecc. – quando deve essere abolita e cioè quando a parere degli organi di polizia non ci sono più le condizioni di pericolo che ne giustificano la spesa. E allora lì scattano le pressioni politiche per evitarne la revoca, perché la scorta ormai viene vista come uno status symbol anche dal punto di vista del ruolo istituzionale che si svolge. In realtà, si dovrebbe attribuire agli organi di polizia un’autonomia nel valutare se quella scorta sia ancora giustificata o no, con tutte le responsabilità che comporta il prendere questa decisione. Questo è il paese in cui per revocare una scorta, qualcuno rischia il proprio posto o il ruolo che svolge. Alle scorte ordinarie, poi, bisogna aggiungere le scorte giornaliere, quando una persona deve essere scortata per un giorno. Anche queste sono in numero rilevante. E così, a Roma il numero di scorte da gestire è veramente enorme. E i commissariati, impoveriti di mezzi e di uomini, faticano sempre di più a controllare adeguatamente il territorio.
D.: All’inizio dell’ intervista ha citato il G8 di cui è caduto il decennale nei mesi scorsi. Quali sono le analogie con la manifestazione di Roma?
R.: Il G8 è stato una ferita terribile nella società italiana che andava rimarginata e andava evitato che il solco tra società civile e forze di polizia si potesse ampliare, perché questo riguardava anche la democrazia del paese e qualcuno nel governo di allora lavorava perché questo solco si ampliasse.
Però non si capisce Genova se si trascura la dimensione politica del problema. Il governo di Berlusconi del 2001 ha la sensazione che l’autunno che segue sarà un autunno caldissimo, perché c’era in pentola una finanziaria lacrime e sangue. Allora l’obbiettivo politico di quel governo era delegittimare la piazza. Mandare un messaggio ai moderati “la piazza è pericolosa in sé, tenetevi lontano dalla piazza”. E allora si capisce il modello di ordine pubblico che fu realizzato a Genova, con i ministri che giravano nelle sale operative: un ordine pubblico pesante, modello militare di tipo repressivo che aveva come nemico il manifestante. Un modello che ha fallito miseramente rispetto a chi, i veri violenti della situazione che erano capaci di tecniche di vera guerriglia urbana: i black block che arrivavano, distruggevano… Questi non sono solo provocatori: l’obbiettivo loro è fare violenza
D.: È fondato il sospetto che viene avanzato che siano strumento di forze, diciamo così, occulte?
Giardullo: Non mi avventuro su questo terreno, però dico questo: capacità di tecniche di guerriglia, grandissima compartimentazione tra di loro - loro comunicano solo via internet -, non si conoscono personalmente, e sono travisati. Sono tutti meccanismi che fanno di questi gruppi, appunto, gruppi che possono essere al servizio di qualunque strategia; gruppi che hanno l’evidente obbiettivo di far degenerare qualunque manifestazione pacifica e forse anche di spostare l’attenzione dall’oggetto, dal merito delle manifestazioni, dagli obbiettivi della manifestazione alla violenza cui la consegnano. Del resto ricordo che ci fu una dichiarazione di Cossiga che proprio in quei giorni doveva incontrare Berlusconi che diceva più o meno così: “se il presidente del consiglio mi dovesse chiedere consigli su Genova io gli dirò lascia distruggere la città poi saranno i cittadini che ti chiederanno di entrare in campo coi carrarmati”. Ecco, questo era il modello di ordine pubblico che rispondeva però a un obbiettivo politico di quel governo: delegittimare la piazza, renderla violenta “a prescindere” per tenere lontani i moderati in quell’autunno. Se si coglie quell’aspetto allora si capisce perché il modello fu quello. Gli errori furono incomprensibili: reparti che dovevano andare da una parte finivano dall’altra; il Tuscania, che quando richiedono il suo intervento urgente, fa per uscire dal parcheggio dov’era in attesa di entrare in azione, non mi ricordo se era nel cortile del carcere, ma sbaglia e esce dopo venti minuti e va nella direzione sbagliata. La maggior parte dei funzionari e degli ufficiali che stavano lì non conosceva bene la città.
D.: Cosa suggerì quell’esperienza?
Giardullo: Da quel momento in poi noi abbiamo imposto il principio che l’autorità locale di pubblica sicurezza è responsabile di quello che succede. Da lì poi siamo riusciti a affermare intanto l’idea della preparazione, della formazione, ma la formazione funzionale al modello preventivo: non più i manganelli battuti sugli scudi per intimorire chi hai davanti ma capacità di controllare la forza, ma prevenzione, piccoli nuclei, dialogo con gli organizzatori. Uso controllato della forza. Da quel momento questo è stato il paradigma. È stata aperta una scuola di formazione per l’ordine pubblico in polizia. È a Nettuno.
D.: Poi c’è stata la prova di Firenze che già metteva in pratica questi principi
Giardullo: Infatti questo io uso dire generalmente: Genova è una ferita ma Firenze che è già esattamente questo modello, ha dimostrato che è possibile nel nostro paese garantire pacificamente alcune manifestazioni. A Firenze non ci fu un’esposizione muscolare della forza. I gruppi, i contingenti furono messi un po’ in disparte, non c’era il contatto diretto con i manifestanti, non solo non battevano i manganelli sugli scudi ma non indossarono, a meno di esigenze immediate, non indossarono preventivamente il casco, tutti quei meccanismi che avrebbero fatto capire che l’obiettivo del dispositivo non era dare in caso di scontro un messaggio esemplare, l’obiettivo è e rimane tutt’oggi per la polizia evitare gl’incidenti. Quando si evitano gl’incidenti, quando non succede niente per la polizia è una buona giornata e è un buon risultato per il paese. Non quando ci sono gli scontri e tu dai una risposta ‘esemplare’.
D.: Dopo Genova quale fu la dialettica tra il sindacato e i responsabili politici e tecnici dell’ordine pubblico?
Giardullo: Noi abbiamo iniziato da subito e devo dire che nel dipartimento fu subito aperta una commissione per studiare quali erano i correttivi da apportare all’ordine pubblico. Noi fummo sentiti, furono accolte moltissime delle cose che sto dicendo: uso controllato della forza, formazione permanente, rapporto con gli organizzatori, prevenzione e non repressione, messaggi che fanno capire che l’obbiettivo è la prevenzione e non lo scontro sono esattamente proposte che facemmo noi e che noi ascriviamo all’iniziativa del mondo sindacale. Vedete, la formazione è fondamentale, è fondamentale che tutti coloro che stanno in ordine pubblico, da chi ha la responsabilità al più giovane degli esecutori, seguano metodiche analoghe, abbiano l’abitudine a reazioni che non possono essere frutto di un ragionamento perché l’ordine pubblico spesso non ti da il tempo di ragionare, si realizza tutto nell’ambito di pochi minuti, e quasi istintivamente tu devi fare le scelte giuste: prevenzione e non repressione, dialogo e non scontro, tu devi essere abituato a farlo. Per essere abituato occorre la formazione.
Ebbene la formazione è esattamente la prima voce che è stata tagliata in questi anni dal governo di centrodestra.
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