di Natya Migliori
Ci siamo. Chiuso l'affollatissimo convegno del Polo Modernista che ha concluso ieri la prima campagna elettorale dopo la liberazione dal regime di Ben Alì, in Tunisia si vota. Sette milioni di aventi diritto, divisi in ventisette circoscrizioni nazionali e sei estere, potranno esprimersi sui centosedici partiti che si contendono oggi i seggi. Secondo le attendibili stime di Fortresse Europe, il 30% dei Tunisini sarebbe orientato verso l'islamismo moderato dell'Ennahda, mentre una buona parte dei voti sembra destinata a disperdersi tra le numerose liste indipendenti, perlopiù riformiste, ed i quarantasette partiti derivati dall'ex maggioranza governativa (l'RCD).
Pare dunque che le parole di Gannouchi, leader del movimento della “Rinascita”, abbiano convinto una significativa porzione della popolazione. Libertà, stato di diritto, democrazia ed autonomia della donna nel mondo del lavoro e nella società sono stati i punti cardine della campagna elettorale di Ennahda.
“L'incertezza purtroppo genera mostri -commenta Mafalda Posco, caporedattrice del quotidiano in lingua italiana “Il Corriere di Tunisi”- e dopo la rivolta c'è la concreta possibilità che il partito islamico, tollerato da Ben Alì ma il cui estremismo è stato fino ad ora arginato dallo stesso regime, possa prendere piede. Abbiamo saputo in via non ufficiale, di ragazze picchiate ed arrestate perché vestivano all'“occidentale” o non portavano il capo coperto.
La Tunisia è tradizionalmente un paese laico e, paradossalmente, solo dalla fuga dell'ex presidente la stragrande maggioranza di donne ha ripreso a portare il velo. La paura delle reazioni dell'estremismo islamico prevaricano attualmente sulla libertà conquistata. E temo che questo possa influire negativamente sulle elezioni.” “Il partito islamico -commenta Sendah, 26 anni, dottoranda in Scienze Politiche- resta un grosso punto interrogativo per la Tunisia. Cacciato da Ben Alì a causa del suo programma estremista, il leader Bennouchi si presenta adesso con un programma “moderato”.
Ma, nel loro atteggiamento, di moderato non emerge proprio nulla. Addirittura dagli anni Novanta si verificano episodi gravissimi taciuti anche dalla stampa internazionale. E frequenti sono i casi di donne sfigurate con l'acido per essersi ribellate alle intimidazioni degli uomini del partito.” “Ma la cosa, forse, ancor più grave -conclude la Posco- è che l'Ennahda è l'unico partito ad avere cospicui finanziamenti. Possiedono interi palazzi e comprano il voto regalando telefonini alla gente. Finanziati da chi? Da dove prendono i soldi?”
“Il problema vero in Tunisia -ci spiega Federico Costanza, responsabile della Fondazione “Istituto di Alta Cultura Orestiadi” a Tunisi- sta nel fatto che la gente non ha la cultura di una partecipazione attiva alla vita politica, non capisce ancora fino in fondo cosa voglia dire scegliere democraticamente dei rappresentanti politici. E ciò potrebbe seriamente inficiare il risultato delle elezioni. Chi andrà a votare? E per chi voterà? La situazione poi è resa ancora più complicata dall'eccessiva frammentazione dei partiti politici.”
A tentare di far fronte ad Ennahda ed al problema dell'inevitabile dispersione dei voti è la sinistra moderata, coalizzata, sul modello italiano, in un “Polo Modernista”. “Siamo in otto partiti -chiarisce Mehdi Mrabet, membro e controllore finanziario del Mouvement Ettajid (Movimento del Rinnovo)- ed il programma della nostra coalizione si basa su tre parole chiave: democrazia, laicità, uguaglianza. Ci spinge ad agire un interesse patriottico che poniamo al di sopra di ogni interesse particolaristico.” “Vogliamo creare un'economia nuova e vivace -aggiunge Alaeddine Boufahjia, giovane portavoce di un altro partito del Polo, il Repubblican Alliance- eliminando la disoccupazione giovanile, riducendo le tasse, promuovendo la cultura e il turismo e, non ultimo, colmando l'enorme divario fra il nord ed il sud del Paese. In accordo agli altri partiti del Polo, vogliamo costruire finalmente una repubblica laica, forte e moderna.” “Non possiamo commettere l'errore di disperderci ulteriormente -spiega Sivia Finzi, di origini italiane, editrice e sostenitrice del Polo- o rischiamo di confondere ancora di più la gente.
L'Italia ci ha insegnato, con le ultime elezioni amministrative ed i referendum popolari, che unendosi sotto un progetto unico si può vincere.” “Stiamo finalmente respirando la democrazia -incalza Achref, 25 anni, responsabile di una associazione locale onlus per la donazione del sangue- e dobbiamo difenderla a tutti i costi. Vogliamo essere liberi di parlare, di camminare tranquilli per le strade, di pensare e leggere i giornali che vogliamo. Se il nuovo Governo non ci garantirà la libertà, siamo pronti a fare un’altra rivoluzione.”
“In gennaio abbiamo combattuto notte e giorno -racconta Mohamed, 26 anni, impiegato- abbiamo presidiato i nostri quartieri e perso molti dei nostri amici in battaglia. Oggi non abbiamo intenzione di mollare. Le libertà che abbiamo conquistato non si toccano. Andremo tutti a votare per avere una nuova Costituzione ed un nuovo Governo. Andremo dritti verso i nostri diritti.” Basta però percorrere trecento chilometri a sud di Tunisi, recarsi a Kairouan o a Sidi Bou Zid per capire che la realtà è molto più complessa di come appare nella capitale, per comprendere come la libertà troppo spesso venga scambiata per anarchia ed il voto appaia solo un'inutile incombenza.
“A volte sento che abbiamo vinto -sostiene Hesna, ventitrè anni, studentessa di Lingue Straniere di Kairouan- a volte mi sembra invece che tutto sia stato inutile. Penso che ci voglia tempo e che sia importante non mollare adesso. Io e le mie amiche andremo a votare, certo, ma siamo consapevoli che non tutti lo faranno purtroppo.” “Niente è chiaro qui -afferma Hossein, 60 anni, commerciante di dolciumi di Kairouan- e nessuno di noi è soddisfatto di come sono andate le cose dopo la rivoluzione. Penso che in realtà la gente non possa fare niente.
A che serve votare?” “Questa rivolta non è nata dalle élite politiche e culturali, ma dalla gente del sud che ha reclamato lavoro e dignità! -ci grida quasi in faccia Hedi, disoccupato. Lo incontriamo mentre sta pregando sulla tomba di Mohamed Bouazizi, il ventiseienne che si è dato fuoco il 14 gennaio a Sidi Bou Zid dando inizio alla rivolta araba, il primo martire della Rivoluzione -Ma cosa è cambiato? Solo i politici continueranno ad arricchirsi. Tutti gli altri siamo e resteremo solo delle vittime, come Mohamed! Perché andare a votare, allora?”
“C'è troppa libertà adesso -sostiene Latifah, 38 anni, inserviente presso un centro sportivo a Sidi Bou Zid- è una vergogna. Ognuno fa ciò che gli pare. Si stava meglio con Ben Alì. Non so se voterò, ma se andrò sceglierò L'Ennhada. Loro forse riporteranno l'ordine.” “Nell'enorme confusione -continua Federico Costanza- una cosa è però certa. La stabilità politica è ancora molto lontana e i nuovi ministri, come gli attuali del Governo di Transizione, si ritroveranno a dover fronteggiare il doppio problema di non lasciare incompiuto il processo rivoluzionario e dover al più presto risolvere la crisi sociale ed il gravissimo crollo economico.” “Noi viviamo soprattutto di turismo e in questo momento stiamo subendo un calo dell'80% . Negli anni passati da giugno ad ottobre arrivavano dall'Italia le navi da crociera che ci permettevano di vendere e dare da mangiare ai nostri figli. Adesso tutto è fermo.”
Hammed, 50 anni, si lamenta in perfetto italiano. Il suo negozio di tappeti artigianali al centro della Medina di Tunisi è deserto, come la gran parte delle strette stradine del “souk”. “Abbiamo bisogno di lavorare -aggiunge Jamel, proprietario di una bottega di essenze profumate- e della solidarietà delle altre nazioni. Solo se dall'estero venite senza nessuna paura e comprate i nostri prodotti artigianali potete aiutarci a risollevare l'economia. I politici? Io voterò per chi mi darà da mangiare.” Ma i media nazionali?
Che peso hanno avuto nella campagna elettorale? Se l'UE ha promosso gli spot pubblicitari ideati dall’“Alto ente elettorale”, resta tuttavia marginale il ruolo dell'informazione locale. “Anche in questo caso -è ancora Mafalda Posco- stiamo vivendo una situazione paradossale. I giornalisti qui erano perlopiù delle persone in cerca di lavoro raccomandate dalla famiglia Trabelsi, che niente avevano a che spartire con la professione. I pochi che non sono legati a questo meccanismo, sono praticamente assuefatti alla censura e non sanno che farsene della libertà di stampa. Continuano, per inerzia, a scrivere come hanno sempre fatto e a passare passivamente i comunicati del Governo. Per sopperire ad una lacuna così grave, il Governo di transizione ha fatto partire dei corsi di formazione per giornalisti