di Lorenzo Frigerio
E ora chi potrà spiegare ai capi e ai gregari delle locali lombarde di ‘ndrangheta che la condanna pronunciata ieri sera non permetterà loro di uscire dalle patrie galere per un buon numero di anni? Ma soprattutto chi potrà spiegare all’opinione pubblica che la ‘ndrangheta in Lombardia è un fenomeno di gran lunga ben più radicato di quanto gli allarmi sulle possibili infiltrazioni criminali, in vista di Expo 2015, lasciassero presagire? Forse ci penseranno gli uomini politici che per tanti anni hanno giocato a rimpiattino, oscillando tra negazionismo e allarmismo? Forse saranno gli industriali e gli amministratori delegati delle grandi aziende a colmare questo vuoto di consapevolezza, coltivato per malinteso senso di responsabilità e alimentato per calcolo e interesse? O forse troveranno le parole giuste quanti erano più preoccupati del buon nome della città e della regione, motori economici dell’intero Paese e per questa ragione impermeabili, quasi per definizione, ad ogni contaminazione di tipo mafioso?
In attesa di capire chi si assumerà l’improbo compito, restano da analizzare i fatti così come riportati nella sentenza pronunciata ieri sera dal giudice dell’udienza preliminare Roberto Arnaldi, all’interno dell’aula bunker di via Ucelli di Nemi a Milano, tra il frastuono di grida, insulti, e anche svenimenti, di alcuni degli imputati presenti per conoscere il loro destino.
Luglio 2010, il blitz
La condanna di ieri arriva dopo due giorni di camera di consiglio e dopo quasi un anno e mezzo dallo storico blitz del luglio 2010, coordinato dai pm della DDA di Milano e di Reggio Calabria. Quella che scatta il 13 luglio dello scorso anno è l’operazione “Crimine”, così denominata sulle sponde reggine o “Infinito” se la si guarda piuttosto dalle rive lombarde. In carcere allora finiscono 304 uomini arrestati tra Lombardia e Calabria soprattutto, ma anche in Piemonte e in Liguria. È una vera e propria “mazzata” per le cosche in termini di risorse umane ed economiche (in due tranche vengono sequestrati beni per quasi 75 milioni di euro), ma è soprattutto la fine dell’innocenza per una regione restia ad ammettere di avere il nemico in casa.
Il quadro ricostruito allora dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pool di suoi sostituti Alessandra Dolci e Paolo Storari è a dir poco allarmante: gli affiliati alla ‘ndrangheta in Lombardia sono oltre 500, i locali portati alla luce sono già 15 – da Milano a Pavia, da Bollate a Desio, da Corsico a Pioltello – ma altri sarebbero ancora attivi in ogni tipo di traffico illecito.
I fattori più allarmanti che scaturiscono dalla lettura delle risultanze dell’inchiesta sono il controllo capillare e diffuso del territorio, la capacità di relazione dei mafiosi con uomini dell’imprenditoria e della politica ad ogni livello, il clima di omertà diffuso al pari di altre regioni del sud.
Un silenzio incomprensibile forse ma significativo del grado di presenza mafiosa, tanto che il giudice Boccassini, da quel momento in poi, non perderà occasione pubblica – in realtà davvero molto rare per la sua scelta di parlare solo per mezzo di atti ufficiali e non concedendo interviste ai media – per denunciare la mancanza di collaborazione con le istituzioni da parte di imprenditori e commercianti, vessati dal racket dell’estorsione e dell’usura, gestito in primis dagli uomini dalle cosche calabresi. E questo nonostante le decine e decine di incendi, attentati e intimidazioni accertate ai loro danni dagli investigatori.
Un’inchiesta quella dei pm milanesi di indiscutibile valore, per la grande capacità di lettura del contesto e di ricostruzione delle prove, per la dedizione delle forze dell’ordine nell’eseguire per ore e ore pedinamenti e intercettazioni ai danni dei mafiosi e resa ancora più complicata dall’assenza di collaboratori di giustizia.
Un’inchiesta “old style” capace però di arrivare al cuore delle cosche e di filmare in diretta molti momenti di vita quotidiana dei boss, compreso l’ormai famosa riunione al circolo “Falcone e Borsellino” di Paderno Dugnano voluta nell’ottobre 2009 per eleggere i nuovi vertici dell’organismo criminale, la “Lombardia”, come era denominata la massima rappresentanza della ‘ndrangheta nella regione.
Novembre 2011, 1.000 anni di carcere
Migliaia di pagine, centinaia di faldoni, ore e ore di intercettazioni telefoniche e riprese filmate: tutto il materiale dell’’inchiesta è stato messo a disposizione del gip Arnaldi e al centro del dibattimento in questi mesi intensi.
La maggior parte delle udienze si è svolta nell’indifferenza generale, nonostante la portata degli avvenimenti in esse ricostruiti e degni di miglior attenzione. Così almeno è stato fino a ieri, quando il sipario è calato inesorabile per segnare la sorte dei rinviati a giudizio.
In attesa dell’annunciato ricorso degli imputati, infatti, ieri sera si è chiusa la prima tranche processuale di “Infinito”: il rito abbreviato per 119 imputati ha comportato la scelta di andare in aula sulla base degli atti disponibili, mentre è tuttora in corso invece il processo per altri 39 imputati, che saranno giudicati con rito ordinario.
Per la Procura della Repubblica di Milano una vittoria su tutta la linea, per ammissione anche dei legali degli imputati, vista la totale conferma dell’impianto accusatorio e le pesante condanne, attenuate solo dal fatto di essere state comminate con uno sconto di un terzo della pena, dovuto alla scelta appunto del rito abbreviato.
Nel verdetto c’è spazio per un totale di quasi mille anni di carcere per 110 dei 119 imputati e per il contestuale riconoscimento dei danni in favore della Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Interno, la Regione Lombardia e i comuni di Pavia, Desio, Bollate, Paderno Dugnano, Giussano e Seregno, oltre che per la Federazione Antiracket Italiana, costituitisi tutti come parte civile all’avvio dell’iter processuale. Danni che andranno poi quantificati separatamente.
Le attenuanti generiche sono state riconosciute soltanto agli incensurati, mentre per capi e promotori le condanne sono state pesanti. È stata riconosciuta in capo alla maggior parte degli imputati il reato di associazione mafiosa.
Le pene più alte sono per Alessandro Manno (16 anni), capo della locale di Pioltello e Pasquale Varca (15 anni). 14 anni invece per i big della “Lombardia” Vincenzo Mandalari, capo della locale di Bollate, Cosimo Barranca, boss di Milano centro e Pasquale Varca, che alla lettura del dispositivo della sentenza, è svenuto per la tensione. A seguire tutti gli altri, con pene che variano dai 12 ai 4 anni. Sei proscioglimenti per “ne bis in idem” – tra questi Vincenzo Rispoli, padrino di Legnano, al centro del processo “Bad Boys” – e tre assoluzioni, tra cui l’ex assessore provinciale Antonio Oliviero, prima attivo nella giunta Penati e poi passato dall’Udc all’Udeur di Mastella. Condanna ad un anno e quattro mesi per l’ex sindaco di Bolgarello, in provincia di Pavia, Giovanni Valdes, per turbativa d’asta. Una vicenda che ha portato ieri alle condanne anche ai danni dell’imprenditore Salvatore Paolillo e del vicedirettore della filiale di Binasco del Credito Cooperativo Alfredo Introini.
E dopo l’Infinito?
In attesa delle motivazioni della sentenza, per arrivare a fornire un quadro più aggiornato delle ragioni di condanne così pesanti, non resta che da valutare l’impatto storico di una sentenza che segna la nuova epoca di contrasto alle cosche da parte della magistratura e delle forze dell’ordine. Dopo la prima fase della metà degli anni Novanta – quasi tremila condanne per 416 bis al termine dei maxiprocessi istruiti dalla DDA milanese e confische di ingenti risorse alle cosche – questa nuova stagione arriva in un momento di diffusa consapevolezza tra cittadinanza e associazionismo milanese e lombardo sulla pericolosità della presenza mafiosa. Fin dal 20 marzo 2010 – quando in Piazza Duomo arrivarono in 150.000 per la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia promossa da Libera – è stato un fiorire di iniziative e manifestazioni sempre più partecipate, con studenti e adulti pronti a schierarsi in difesa della legalità e contro le mafie.
Fino ad oggi quello che mancava decisamente era una presa di coscienza da parte del mondo politico. Le stesse leggi volute dalla Regione Lombardia per dare una risposta di contenuto all’offensiva mafiosa giacciono ancora in attesa di una loro concreta attuazione.
Oggi i segnali che provengono dalla nuova amministrazione comunale retta da Giuliano Pisapia non mancano e questa inversione di tendenza non fa che aumentare la speranza di arrivare a coniugare l’azione amministrativa con l’impegno civile.
L’occasione è storica, sarebbe un peccato perderla.
* Saviano aveva ragione, e la Rai che fa? - di Giuseppe Giulietti